ASINUS NOVUS, LETTERE DAL CARCERE DELL'UMANITÀ. RECENSIONE AL LIBRO DI MARCO MAURIZI

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di Giulio Sapori 

Il libro in questione, edito dalla benemerita Ortica Editrice, è un piccolo libro (62 pagine in formato ridotto al costo di 2,80 euro)  ma molto ricco di pensiero, un'atipica introduzione all'antispecismo.
Introdursi all'antispecismo significa accedere ad un luogo buio, sorta di torbida caverna platonica, dove "l'umano getta la propria ombra di indifferenza e di morte". In questo luogo incontriamo diverse figure (un poeta, una donna di scienza, un padre, un cattolico, un animalista, un'artista, un angelo) con cui l'autore cerca di dialogare a distanza.
L'intento non è tanto quello di illuminare oggettivamente e una volta per tutte questo rimosso, ma di far sentire la presenza redentiva di un altro sguardo, non 'celeste' come quello dell'Angelo di Walter Benjamin a cui richiama il titolo, ma terrestre e 'stupido' come quello di un asino. Questo sguardo ci indica un al di là da quel carcere chiamato Umanità.
I capitoli sono scritti in forma di lettera, in modo da rendere più diretto e franco il discorso. Un discorso che quindi tenta di farsi dialogo, incontro. Non lezione impartita, ma parola scambiata, una parola che ricerca fessure, buchi, da cui promana nuova aria, più fresca e vivificante di quella troppo condizionata che circola negli spazi del 'The Human Show'. La posta in gioco è la liberazione, non dall'umanità ma dell'umanità:
"è l'umanità fatta galera che occorre dissolvere, non l'umanità come tale" (pag.8). La liberazione è un orizzonte ampio che riguarda animali umani e non-umani.

La prima lettera è rivolta ad un poeta, quel poeta che, nel mondo del diritto-di-parola e del rumore, è straniero. Heidegger lo definisce 'arrischiato' poiché "soggiorna sulla soglia", in quella "striscia di terra feconda" (Rilke) punto di incontro tra le parole e le cose. In quel punto in cui si sospende la coazione denotativa del linguaggio, il suo silente 'fascismo' (R. Barthes), e si lotta per dire. La parola del poeta è inquietante poiché abita il luogo in cui le parole perdono il loro carattere riempitivo, diventando flatus vocis, aperte all'ascolto di quell'alterità silenziosa che le abita e in cui abitano.

Quante parole si pronunciano ogni giorno? e quante libere? Qui la libertà non è da intendersi come possibilità di parlare, ma come apertura di quel parlare all'inaspettato. Pensiamo, per esempio, ad una categorizzazione oggi sempre più diffusa quale 'vegano', ormai diventata un'etichetta più che un'etica, chiudendo il significato nell'effetto (prodotti senza componenti di origine animale) e silenziando la causa (guardare il mondo dalla prospettiva terrena e vulnerabile dell'animalità).
La questione oscurata dai tanti discorsi diffusi sul veganismo è molto semplice: che tipo di rapporto praticare con il resto del vivente con cui condividiamo un mondo? Una problematica sempre più urgente e affrontabile, in modo più libero, staccandoci dal sopruso istituzionalizzato sui corpi altrui. Infatti, non solo per vivere non abbiamo bisogno di versamenti di sangue, ma avremmo molto più bisogno di gentilezza, di relazioni non reificate ed ingabbiate. Per questo non mangiare più animali è libertà: apre uno spazio nuovo, ancora non codificato, in cui è possibile incontrare veramente gli altri, non avendo più una pratica violenta da giustificare e difendere. Come disse Kafka, guardando un pesce in uno stagno, “ora che non ti mangio, posso guardarti in pace”.

L'autore ci tiene ad allargare l'interesse della questione: mangiare animali non è solo un problema etico, qualcosa che ci interpella singolarmente, ma politico, ci riguarda come gruppo (pensiamo alle manifestazioni che vi sarebbero se il governo decidesse di macellare i cani). Si mangia animali per abitudine, per tradizione, non tanto per 'scelta'. Per questo decidere di non mangiarli è liberatorio: ci poniamo fuori da ‘Si’ impersonale dell’abitudine sociale e dei pregiudizi che ci impongono tassonomie animali basate sull’utile ('animali da' cibo, compagnia, circo, laboratorio).


La domanda alla donna di scienza, a cui è dedicata la seconda lettera, è quindi: “abbiamo veramente bisogno della schiavitù animale?” (pag.14). E, a parte qualche problema di riassetto sociale, la risposta è no. Scientificamente, no. La scienza potrebbe aiutare a facilitare la fine di questo immane sfruttamento, ma non vi è molto interessate a causa dei grandi profitti che ancora si fanno sulla loro pelle (pensiamo alla quantità di farmaci, testati su animali, per malattie prevenibili).
La ricerca scientifica è parte del sociale, quindi i suoi metodi e scopi vanno esposti chiaramente e giudicati socialmente. E’ ora di mostrare la violenza strutturale contro gli animali non-umani, affinché l’opinione pubblica possa decidere della loro sorte in maniera meno ipocrita. Molti, infatti, se informati senza retorica, potrebbero non accettare questo tipo di pratiche, indirizzandosi su la strada di “un’empatia generalizzata e transpecifica” (pag.16).
  

La lettera al padre tratta del rapporto-dissidio tra infanzia e adultità. Gli animali appaiono come vere e proprie epifanie al bambino, entità magiche che attraggono la sua attenzione. I pet, spesso presenti in casa, perdono un poco questo mistero, soprattutto quando sono trattati come cose, giocattoli, in quella modalità dell’avere propria del mondo adulto. Diventare adulti significa, in questa società, soprattutto questo: passare dall’essere all’avere. E’ infatti difficile trovare una persona matura che comprenda “il valore del non-possesso, il fascino del non-mio, la seduzione che solo il non-io può esercitare liberandoci dalla gabbia del narcisismo” (pag.22). Ma le colpe non possono essere assegnate solo ai singoli: è la società, con le sue tradizioni, che occorre criticare. Dai genitori, infatti, si apprendono anche i primi rudimenti di etica, in quanto limite al proprio egoismo. Cos’è l’educazione se non un ‘condurre fuori’ dall’universo chiuso del mio e dell’io, considerando anche i bisogni dell’altro? E perché, quando si tratta di animali non-umani, questa considerazione dell’alterità viene soppressa?
  
La lettera al cattolico ci parla dell’incontro, sempre singolare, con l’Altro. E del senso di questo incontro. Dividere il vivente in persona (l’uomo) e non-persona (tutto il resto), tipico del cattolicesimo, può non essere negativo, se questa differenza non viene usata per giustificare la violenza e il sopruso. Ma questo avviene molto raramente. Il messaggio più diffuso vuole un'umanità padrona del vivente.
Per questo la realtà della sofferenza animale viene negata nel “deserto di ghiaccio dell’astrazione” (Walter Benjamin). La domanda rimane: perché la dignità umana dovrebbe giustificare tale violenza? La violenza antropocentrica è ideologia quando la voce della ragione con i suoi proclami assorda l’altra voce che ci abita, impedendo di fare una pausa, di ascoltare, di soccorrere. Allargare il cerchio della dignità in cosa andrebbe contro il messaggio evangelico? Non è forse questo il senso dell’agape? Della caritas? Lo scandalo dell’umiltà come attenzione all’altro verrebbe compromesso dall’attenzione alle altre specie viventi? Considerare anche gli altri animali significa sminuire l’uomo, ridurlo? Se smettessimo di considerare gli animali come meri oggetti forse non avremmo paura del nostro accostamento a loro. Il riduzionismo che piega la complessità (vita) alla semplicità (oggetto), è da estirpare a favore di un pensiero vivente tra i viventi.

Lo spirito non dovrebbe essere considerato un possesso dell’uomo, ma qualcosa che circola “nello spazio che si apre tra sé e il proprio altro” (pag.37), in quella comunione che è già comunicazione. Occorre solo porsi in ascolto della vita, come fanno i bambini. Questa, infatti, è un corpo parlante, che si esprime in molti modi: ascoltarla è liberarsi, almeno dalla complicità con quel male che immettiamo volontariamente nel mondo.
Ogni vita è una vita, un microcosmo. Ogni volta che uccidiamo qualcuno la realtà si impoverisce.

Il Vangelo annuncia il comandamento dell’amore che impone umiltà, attenzione e cura verso il prossimo. Non deve essere irreggimentato gerarchicamente e illanguidito in abitudini.

Nella lettera ad un animalista si indaga il mondo variegato dell’animalismo. La prospettiva di Maurizi è politica: occorre incidere sulle strutture oggettive di questa società basata sullo sfruttamento, e non solo sulle coscienze dei singoli. Va pensata una strategia di lungo periodo che proceda, tappa dopo tappa, verso una società antispecista. La macchina di asservimento e morte va fermata. Per questo sarebbe utile trovare dei punti di contatto con altre forze antisistema (quindi, oggi, anticapitaliste). Infatti, per attuarsi, una società antispecista dovrebbe far cessare lo spreco e la distruzione delle risorse, la dittature delle multinazionali (soprattutto in campo medico), la fabbrica industriale di falsi bisogni.

Il veganismo è fondamentale per pensare una società non gerarchica, poiché ha scelto di privarsi di un ‘privilegio’ in quanto considerato ingiusto. E questa postura di coerenza contro tutte le sopraffazioni, anche normalizzate, è centrale per pensare ad una società alternativa. Ma questa società non-violenta non può che pensarsi e organizzarsi collettivamente, anche insieme a persone che non hanno fatto propria la scelta vegana. Per abolire il carcere dell’umanità vanno unite le forze, sennò si rimane marginali.
 
L’arte è ciò che non inganna, che può realizzare un’armonia senza violenza, indicando un modo di accostarsi alla realtà, diverso da quello scientifico e religioso. Svolge un’azione politica proprio nella sua distanza da qualunque progetto politico.

Il soggetto ‘metafisico’ e quello ‘scientifico’ poggiano entrambi sul dominio della natura. “Il fondamento della conoscenza è l’estraniazione della natura interna ed esterna”(pag.55). Questa estraniazione speculativa è molto potente: la reificazione, in quanto si pone ad una distanza ‘metodologica’ dalla realtà, riesce ad imprimersi con più violenza su di essa. La posizione antispecista è radicalmente in contrasto con questa metodologia. Il nostro posto è nel mondo, non sopra di esso; e l’efficienza utilitarista indica più la povertà della nostra esperienza che un contenuto di realtà.
La libertà specista è quella del signore sul servo: una libertà dalla natura. L’antispecismo invece ha come meta una libertà della natura, cioè un rapporto tra eguali, pur nella diversità.

L’ultima lettera è “ad un angelo (dall’epistolario di un asino)”. L’asino racconta all'angelo gli uomini, soffermandosi sulla vicenda di uno in particolare: Walter Benjamin. Gli parla della vita di questo diverso filosofo, terminata in una morte suicida mentre tentava di fuggire dal nazismo. Ma il focus è sull’interpretazione benjaminiana dell’Angelus Novus, quadro-rivelazione di Paul Klee. L’angelo della redenzione è bloccato dalla tempesta che soffia alle sue spalle, la tempesta del Progresso, che accumula macerie “sotto le quali urlano i corpi straziati di tutte le vittime della civiltà tra cui, ovviamente, gli animali” (pag.60). L’idea è che la storia come progresso non ci porti affatto ad un mondo più giusto, e questo per un motivo semplice: il suo presupposto è la natura come oggetto a disposizione della potenza razionale. Questo è l’apriori di tutte le atrocità, fino ai campi di sterminio, dove la violenza bruta sui corpi vulnerabili invoca una giustizia che vada oltre l'umanismo, verso una con-passione transpecifica.  


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