LE PICCOLE PERSONE. ANNA MARIA ORTESE E LA VITA OFFESA

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di Giulio Sapori

Il dolore degli animali è ormai il primo dei miei pensieri, e giudico perfino il ‘genio’ da quel rapporto: se c’è o non c’è, con l’indignazione”. Lettera a Guido Ceronetti, 8 febbraio 1983


Questo è un volume atipico. La curatrice, Angela Borghesi, vi ha raccolto trentasei scritti di Anna Maria Ortese: tredici testi giornalistici e ventitré inediti (conservati nel Fondo Anna Maria Ortese dell’Archivio di Stato di Napoli) che illuminano un aspetto poco noto della scrittrice: il suo impegno appassionato in difesa del mondo della vita.

L’autrice, una delle più importanti scrittrici del ‘900, conosciuta soprattutto per i suoi racconti, come Il mare non bagna Napoli, e romanzi come L’iguana, intrisi di realismo e magia, si schierò, soprattutto negli ultimi anni, contro le violenze e le offese che l’uomo compie nei confronti degli altri abitanti di questo mondo, nostri “fratelli diversi.

Il primo scritto del libro ci introduce ad un paesaggio grandioso, cosmico, punto da cui osservare meglio la realtà che ci circonda.
L’Universo è unitas multiplex: insieme di stelle, pianeti, mare, alberi, animali: stessa è l’energia e la materia che vi fluisce. “Ecco a cosa corrisponde, per me, la parola ‘natura’. A una forza e un respiro grandioso, a un evento senza origine, a un ritmo senza riposo” (p. 15).
La Natura è questa unità dinamica, che non sappiamo dove inizi e dove finisca. Di fronte a tutto questo, l’uomo non può che provare ammirazione, per la grandiosità e per il suo inestricabile mistero, a cui si unisce però anche un timbro melanconico, a causa della mancanza che si sente nel tessuto di questa stessa realtà.

In tutto ciò che c’è (uomo, animale, albero, ma anche pietra), la Ortese sente come una “memoria della separazione”, il segno di una ferita.
La sofferenza e il dolore del mondo sono conseguenza di questa ferita, di questo distacco da una Pienezza originaria: non solo la Natura si è staccata da questo Pleroma, ma vi è una parte della Natura, l’umanità, che si è staccata dalla stessa Natura, amplificando così le sofferenze del mondo.

Ascoltare i lamenti del mondo, gli echi della ferita, è ciò che distingue uno scrittore autentico da uno bravo. Quello bravo sa scrivere, ma non è collegato al “suono della vita”; quello autentico, invece, ascolta e ricerca “ciò che manca, dappertutto”, raccoglie “tutte le voci di un evento che ci ha lasciati, e quando non le voci, i silenzi – impressi in ogni corteccia d’albero, in ogni dura pietra, quando non pure nelle risuonanti, sempre uguali, narrazioni del mare” (p. 17).

Essere sensibili alle ferite del mondo, ovviamente, non è solo compito dello scrittore, ma di tutti gli uomini.
E infatti, nonostante alcuni scritti si rivolgano più a scrittori e intellettuali, i destinatari primi delle sue parole sono proprio le persone comuni, troppo spesso malate di indifferenza antropocentrica, di apatia per l’Altro.

La cosa più sorprendente di tutte è proprio l’assenza di sorpresa nella maggior parte degli uomini: quel loro sorprendersi solo di ciò che essi stessi istituiscono e costruiscono cioè, in fin dei conti, solo di sé.

Perché poniamo attenzione solo a noi? Perché questo rifugiarsi nello specchio? “Cos’è questo mistero per cui la cosa più importante di tutte, la cosa terribile o smisuratamente gioiosa, sfugge alla vista di moltitudini?” (p. 19). La cosa più importante di tutte, per la Ortese, è “l’inspiegabilità e novità di ogni singola cosa”, la sua assoluta singolarità.

Di fronte alla rutilante creatività dell’Universo, la coscienza superficiale dell’uomo fa vedere sempre lo stesso: cose. Di fianco a questa “coscienza normale”, votata all’utile e al funzionamento del macchinario sociale, ve n’è però un’altra: quella profonda, quasi ignota all’uomo di oggi perché, nella società del controllo, “supremamente impopolare” (p. 24). Una coscienza visionaria che sospende la configurazione contingente del presente, tempo strappato e lacerato, aprendoci ad un futuro-passato di riconciliazione con tutto ciò che vive.
Una coscienza che va oltre l’ideologia antropocentrica che vede l’uomo signore del creato, palese “fantasia fanciullesca” (p. 31), che ha portato però ad un reale inferno sulla terra, quello stesso che l’uomo teme e temeva “ed ora ha pienamente realizzato. Lo ha realizzato per i più deboli” (p. 34).

Nel mondo governato dall’economia, i deboli sono coloro che non hanno denaro (poveri) o che non possiedono nemmeno la sua cognizione (il resto del vivente). In un mondo governato dalla forza inumana del denaro, nuovo Dio che definisce ciò che è buono o cattivo, questi soggetti vengono costantemente calpestati.
Un fare arrogante che però non può continuare per sempre: vi è, infatti, una resistenza insita nella Cosa, in quanto se la distruggi, alla fine, ti autodistruggi (se consumi tutto sarai tu stesso consumato). Quindi o si cambia o distruggeremo tutto, noi compresi.

Il ciclo vitale del mondo della vita è sempre più amministrato, imposto: “TUTTO, ora, È ALLEVAMENTO”: in heideggeriano potremmo dire che tutto è Gestell, produzione tecnica, che soffoca la spontaneità della Natura. “Dove sono le madri, ora? Il concetto di maternità (nutrizione celeste da adulto a piccolo) è abolito: maternità nel caso migliore vuol dire allevamento” (p. 37).
Ma, sempre più, nell’inferno dell’Allevamento si sta alzando una Voce che “nel dolore infinito ha trovato di colpo la forza e la libertà di alzarsi contro il suo oppressore, e determinarne la perdita di potere davanti alla Vita” (p. 39). Non tutto è perduto, se si ha la forza di vedere oltre le convenzioni che strutturano il nostro mondo.

Io credo in questo. Credo che vi sia un diritto più alto del naturale – e più concreto – sebbene invisibile. Un diritto ad essere e respirare come se ciascuno dei viventi – animali o uomini – fosse dotato di un lasciapassare divino a tutte le frontiere della Manipolazione. Non si tocca! È scritto su ogni fronte di cane o d’uomo. Non si passa! È detto in ogni ala d’uccello o di poeta. Da qui, via! – è stampato in lettere di fuoco in ogni corpo umano e animale”.

Nel tempo della tecnoscienza, della manipolazione di tutto e tutti, “nuovi tempi vengono avanti”, “tempi di fraternità con gli alberi con la luce con i fiori” (p. 41), tempi in cui il regno della vita avrà la meglio sul regno del denaro e della volontà di potenza. Anche perché, come abbiamo già detto, se non avrà la meglio, tutto perirà.

I nuovi tempi sarebbero annunciati anche dalla ricomparsa di uno stato d’animo da cui gli uomini si sono allontanati: la malinconia. Questa richiama ad un senso forte del limite, coscienza viva dello scorrere del tempo: tutto passa, sapere potere avere, e anche noi con essi. In tempi immaturi come i nostri, in cerca di una giovinezza e un potere illimitati, maturità significa proprio questo: senso del limite.

Il limite è a fondamento dell’etica: protegge il povero e il poco dal potere volgare del ricco e del molto. Sta dalla parte del piccolo e del segreto, come “il sentimento di un bambino per il proprio cane” (p. 51), poco considerati in Italia, più sensibile ai banchetti, alle tavole imbandite e alle inutili formalità.
Lo sfruttamento è la parola d’ordine: della natura, degli uomini, delle donne, della miseria, dell’ignoranza, della debolezza; e, più su, delle idee, delle virtù, delle passioni, delle qualità perfino” (p. 61). Tutto va messo in mostra, in opera. Niente va lasciato in ombra: se una cosa non è pubblica, non esiste. Viviamo nel tempo della pubblicità. Ed è proprio in due cartelloni pubblicitari che l’autrice vede quella ferocia e quella mollezza che caratterizza sempre più la società, soprattutto italiana. Ferocia e mollezza propria di un’umanità dedita alla ricerca e all’accumulo di denaro e potere, ritenuti tanto importanti anche perché illudono gli uomini di potersi salvare dal “mattatoio del tempo” (p. 71), illusione propria soprattutto dei “fanatici della morte comoda (l’altrui)", giustificatori di tutto il male che non li tocca direttamente.
Occorrerebbe, di contro, insegnare ai ragazzi  “la cosa più importante del mondo, e che la civiltà e il denaro credono di aver vinto: il tempo passa comunque, e manda a casa, alla fine, i suoi conti” (p. 72). 

Infatti, alla fine, la caratteristica saliente della vita è proprio la sua vulnerabilità, il suo poter venir meno improvvisamente. Una fragilità che suscita, nell’autrice, un senso di vertigine e venerazione. La cultura, se non vuole essere barbarie, dovrebbe dare ascolto a queste sensazioni e fondarsi sul senso di meraviglia, di attenzione e cura verso ciò che è vulnerabile. Proprio questo dovrebbe insegnarsi a scuola, insieme ai “doveri dell’uomo verso tutta la terra” (p. 106).
L’ammirazione e il riguardo per la vita dovrebbero diventare ciò che permette di giudicare una persona, ma anche un paese.


Gli animali sono “Piccole Persone, fratelli ‘diversi’ dell’uomo (p. 114): “immenso popolo muto e generalmente mite, ma senza un diritto al mondo, e di cui ciascuno può fare ciò che vuole, e lo fa, macchiando la terra di un solo interminabile delitto” (p. 113). Siamo parte di un’unica grande famiglia: quella della vita. Ciò che differenza l’uomo comune dall’animale non è qualcosa di nobile, bensì “l’orgoglio ridicolo del raziocinio”, la sua “capacità di sconsacrare ed usare la vita” (p. 115), di ridurla ad oggetto.

Per la Ortese, l’uomo non è qualcosa di già dato, poiché senza compassione e “senza fraternità non ci sono uomini ma contenitori di viscere”: vi è la forma d’uomo ma non la sostanza.
Più l’uomo (e la donna) ignora le Piccole Persone, più indegno è di chiamarsi uomo” (p. 117). Chi non sente i dolori e le paure dei nostri fratelli minori non sente niente, ed è quindi inumano. “L’uomo che ha fame, e cammina nella vita solo armato di coltello e forchetta, spregiando e sporcando tutto, senza mai porsi per ideologia la buona salute del pianeta, la sua felicità e calma, e la felicità e calma di tutti i suoi figli, compreso il cardellino, il passero!, non è un uomo” (p. 121).


Questi giudizi sono supremamente impopolari e il ricatto morale che solitamente si fa a chi ha una sensibilità per le sofferenze inflitte alle Piccole Persone sta nel dirgli che “vi sono molti altri problemi, più importanti: la povertà, la fame nel mondo, ecc.” ed è quindi, tutt’al più, da sentimentali interessarsi delle sofferenze animali. Ma, si chiede la Ortese, è veramente possibile isolare i problemi ‘umani’ da tutti gli altri problemi? L’idea di uomo che hanno coloro che pensano così non è un po’ troppo astratta?
Da troppo “si parla dell’uomo come dell’unico”, a cui è consentito ogni delitto, “purché non tocchi l’altro uomo” (p. 127), “ma chi ama veramente l’uomo lo ama tutto intero, con i suoi uccelli e le sue radici di sogno” (p. 129). Questo significa che chi odia e non rispetta gli altri animali significa che non rispetta neanche l’uomo, l’uomo concreto, parte della carne del mondo.


In tutto ciò, l’arte e la letteratura non hanno aiutato ad uscire da questo pantano etico ed estetico, interessandosi quasi esclusivamente dell’uomo, delle sue imprese e del suo dolore. Di più: spesso gli intellettuali hanno sostenuto l’indecenza trionfante della forza, presente nelle molte tradizioni popolari, “abiezioni del mondo” (p. 147), animate da “gente assetata del dolore e dell’umiliazione del più povero” (p. 172). Tra molte attitudini umane, sembra ve ne sia “una sola certissima: consumare e odiare qualsiasi cosa gli impedisca uno smodato consumo di qualche cosa” (p. 148).
Questo tipo d’uomo non è degno di reverenza, come invece vogliono la Chiesa e gli umanisti:  non è l’uomo consumatore di tutto ciò che esiste che va riverito, ma l’azione compassionevole, la sensibilità e il soccorso prestato alla vita, soprattutto se indifesa.

In questa Terra “non c’è posto per chi consuma solamente, senza mai veramente capire, né trasformarsi, né farsi fratello e amico di tutto quanto respira. Senza privilegiare, su tutto, il libero respiro di tutti. E giungere, promuovere la sola civiltà del respiro – e la libertà di respirare – e di non essere impediti di respirare – di tutti” (p. 158).
Chi si mettesse dalla parte degli animali scoprirebbe “la strada per un riscatto della stessa umanità, e un suo ritorno alla vita felice” (p. 182). Poi, l’autrice sbotta: “basta basta basta con i problemi dell’uomo. L’uomo si alzi in piedi, veda quanto ha rubato, infierito sulla natura, depredato e straziato – e come questa vita di vandalo lo abbia stremato. Si alzi a ricostruire la terra che non era sua, era dono di tutti, e solo allora – se avrà fatto qualcosa di buono per questa terra e per i suoi abitanti tutti – osi parlare dei suoi strazi. Ma prima no” (p. 183).

E poi conclude: “L’avvenire sarà nei boschi e nell’acqua, vicino a bestie amate e che ci amano: oppure non sarà” (p. 202).

Qui sotto riporto alcune sue prese di posizione:

CHIESA CATTOLICA. Per l’autrice, unico peccato è l’assenza di pietà per i più deboli. E si scaglia contro la Chiesa: "Per quale ragione, vorrei dire, la Chiesa si ostina a credere che gli animali possano e debbano sopportare tutto, senza che mai ne venga per l’uomo – battezzato o meno – una qualsiasi condanna? Sentiamo – vorrei dire – dove mai vede l’immortalità e il superiore destino che tocca, in ogni caso (anche se torturatore di cani), a un battezzato? Alla luce della ragione, un torturatore di cani non può avere nessun diritto a chiamarsi uomo, e a pretendere una qualsiasi immortalità, egli non esiste, come anima e come uomo, semplicemente.
Quanto avrebbe potuto fare – e non ha inteso suo dovere di farlo – la Chiesa davanti a costumi umani che si trasmettono da secoli, senza che la dottrina celeste muova un ciglio. I Giochi! La Cucina! L’Utilità! La Scienza! I Mercati! I Commerci! Miriadi di agnelli sgozzati il venerdì o sabato santo per essere ingeriti dopo la Comunione, trasporti inumani ai macelli! I macelli! Gli allevamenti! La sperimentazione che riduce una bestia simile a Cristo sulla croce, però senza il grido finale. Tutto questo è ammesso, tollerato, benedetto, sostenuto da autorità ora religiose ora civili, da noi e in ogni paese!
”. (p. 156)

CIRCO. Suscita, nella Ortese, una forte pena: “i cavalli, fatti per il libero vento, che vanno a passo di danza anziché a sfrenato galoppo di prateria; gli elefanti, nati per vivere nella pace delle grandi foreste, ridotti a seguire il cenno della bacchetta e il colpo del pungolo; i leoni, imprigionati fra quattro sbarre di ferro, seduti sugli sgabelli come inquieti scolari” (p. 98), re detronizzati messi in pubblico per dare spettacolo, ed essere così umiliati.

VIVISEZIONE. “La domanda: perché mai, nella logica comune dei benpensanti, di persone anche colte, buone, delicate, il dolore umano viene sempre considerato ingiusto, un male da eliminare, una specie di vergogna che impegna la società a combatterlo con tutte le sue forze, mentre poi, costantemente, il dolore animale, anche il più terribile, è accettato come una fatalità, non solo, ma se deve procurare qualche nuovo beneficio all’uomo, è una fatalità benedetta? Perché questa differenza tra corpi viventi che, se tormentati o straziati, soffrono ugualmente?” (p. 161-2). Per un approfondire qui.

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