BIODIVERSITÀ E BENI COMUNI. QUALCHE APPUNTO

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di Giulio Sapori

Qualcuno ha scritto che il XXI sarà ‘il secolo della biodiversità’. In verità, per ora, si può considerare il secolo del suo drastico depauperamento: il tempo dell’ormai tristemente nota sesta estinzione di massa.
Negli ultimi quattro secoli, si sono estinte per cause antropiche circa 350 specie di vertebrati, 400 di invertebrati e un numero non determinabile di piante. Si ipotizza inoltre che i ritmi di estinzione cresceranno di 10 volte rispetto a quelli attuali. Ed è a partire da questo quadro problematico che il libro Biodiversità e beni comuni prende le mosse.

La biodiversità, in quest’opera, non è tanto un concetto scientifico da indagare a distanza, ma la stoffa di cui è fatta la vita, di cui l’uomo è parte. La premessa delle indagini svolte può essere sintetizzata nella frase: “la Natura ne sa molto di più della biologia, anche se è quest’ultima che crede di comandare”, come è scritto dai curatori, Gianni Tamino e Carlo Modonesi, nella Premessa, citando un signore che era intervenuto ad una loro conferenza. Ciò significa che non si sta trattando un tema ‘per specialisti’, o peggio ‘addetti ai lavori’, ma qualcosa che dovrebbe interessare tutti, perché ci riguarda tutti.

Negli interventi vi è una forte critica all’ordine economico-finanziario, principio primo della globalizzazione capitalistica, che rivela tutta la sua limitatezza nel prendere in considerazione problematiche non legate alla contabilità e al guadagno immediato, come l’impoverimento degli habitat, la sterilità dei suoli, l’estinzione di specie.
Questo ci spinge a dover criticare radicalmente l’ideologia economicista, cercando di ribaltare la gerarchia di importanza tra economia ed ecologia: la dimensione ecologica indica il tipo di economia più consona ad essa. Da due secoli, invece, si fa il contrario: gli ecosistemi si piegano forzatamente, e mortalmente, alla logica parassitaria dell’economia capitalistica. Un principio che funziona finché esistono ‘terre vergini’ da sfruttare. Ma è folle pensarlo come realistico, nel breve e, soprattutto, nel lungo periodo. Riprendendo le ormai famose parole di Kenneth Boulding (1910-1993) economista e poeta inglese: “chi crede ad una crescita esponenziale che possa continuare all'infinito in un mondo finito o è un pazzo o è un economista”. Attualmente siamo in mano proprio a questi economisti.

I saggi qui raccolti si muovono in quel solco in cui si incontrano scienza e società, economia ed ecologia, per una concezione il più possibile complessa ed accogliente dei diversi saperi per poter meglio considerare le tante diversità che attraversano il mondo, ma che si stanno via via perdendo.

Queste riflessioni si concentrano su tre saggi, presenti all’interno del libro: quello di Modonesi (zoologo), Giovannetti (microbiologa) e Tamino (biologo).

L’intervento di Carlo Modonesi è titolato La scienza della biodiversità: evoluzione, ecologia, conservazione. Mostra come l’ecologia e l’evoluzione hanno da sempre una forte connotazione extra-scientifica, trattando non di oggetti ma di processi in cui gli uomini, al pari degli altri viventi, sono situati. Sono anche due saperi che hanno mostrato l’importanza fondamentale della diversità per la nascita, lo sviluppo e la conservazione dei viventi.
Da questo segue il principio secondo cui “ogni volta che si verifica una perdita di diversità, la perdita non riguarda soltanto la singola componente che scompare ma riguarda l’organizzazione di una diversità più grande: una riduzione della diversità si traduce sempre in un impoverimento del mondo” (p. 22).
Come dovremmo intendere questa diversità? “in tutti i suoi aspetti, da quella biologica a quella culturale ed economica, come dottrina della non esclusione, come strategia essenziale di sopravvivenza e di successo evolutivo per confrontarsi alle opportunità e ai rischi di un futuro non lineare, dinamico e inerentemente imprevedibile (Francesca Di Castri)” (p. 23).

L’ecologia sensibilizza la nostra attenzione, oltre alle diversità di organismi, anche alle relazioni che intercorrono tra le diverse componenti di un ecosistema. Ha per suo statuto un’impostazione sistemica: “ecologia è la scienza che si occupa delle relazioni tra le cose viventi e il loro ambiente” (E. Haeckel, 1866). Appartiene allo stesso albero genealogico del darwinismo. Ma non è molto considerata nell’evoluzionismo, ancora legato ad un’immagine relazionale individualista. Le biocenosi (organizzazioni di organismi), per esempio, non sono state molto considerate dalla scienza, impedendo così anche una conoscenza adeguata della biodiversità.
“Se è vero che sono state accumulate buone conoscenze scientifiche su peculiari associazioni interspecifiche – come i casi ospite-parassita, pianta-impollinatore o preda-predatore – è vero anche che la consuetudine a ragionare con un approccio olistico sui cambiamenti evolutivi delle relazioni interspecifiche è stata sottovalutata” (p. 31).

La biodiversità è stata ora rivalutata grazie alla biologia della complessità, la teoria delle reti e dei sistemi autorganizzati, che hanno portato alla comprensione del suo ruolo importantissimo per la ‘resistenza’ ecosistemica. Questi nuovi ambiti di ricerca hanno fatto emergere che vi sono comportamenti non rintracciabili né nelle singole componenti né nelle singole relazioni tra componenti. Si è capito che studiare le singole popolazioni di specie non permette di comprendere elementi che emergono dalle loro complesse interazioni, nell’ambiente.

Ma che cos’è poi questo ambiente? Seguendo il biologo Richard Lewontin, si può definire come una componente biologica inserita in uno spazio fisico: l’ambiente non è il contenitore degli organismi, ma relazione concatenata e ricorsiva tra forme biotiche e abiotiche. Da qui ne viene che “un fattore di deterioramento dell’ambiente non può fare altro che produrre un deterioramento della vita, e viceversa” (p. 35). Ed è quello che stiamo facendo proprio noi, specie ‘sapiens’. Se ne accorse, anni fa, Edward O. Wilson, impressionato dal ritmo iperaccelerato di estinzioni: fu questo che gli fece divulgare il termine biodiversità. Il ritmo di estinzione sembra sia aumentato di 1000/10000 volte rispetto a quello in situazioni normali. Pur non sapendo quante specie esistano sulla Terra, sappiamo, però, che la velocità con cui le distruggiamo è di molto superiore alla velocità con cui le riusciamo a conoscere e classificare.

Cosa fare? Quale rapporto intrecciare con la Natura? Modonesi indica le tre concezioni più diffuse del rapporto uomo-natura: la preservazionista (la Natura ha un valore intrinseco), la conservazionista (la Natura va usata in modo sostenibile) e l’utilitarista (la Natura va sfruttata senza molti limiti). L’Autore condivide maggiormente la posizione conservazionista, pur riconoscendo valore anche alla preservazionista. L’economia capitalistica è invece completamente sbilanciata nella concezione utilitarista, grazie anche alle privatizzazioni massive (dai brevetti sui geni al land grabbing) che legittimano la volontà di profitto e l’utilizzo senza regole del vivente.
La riflessione sui beni comuni intende contrastare la miopia economicista, a favore di un libero accesso, entro limiti razionali, al consumo di beni primari, primo fra tutti il cibo.

I beni comuni della biodiversità sono intaccati in tre modi: 1) sovrasfruttamento/deterioramento delle risorse naturali da parte dell’uomo; 2) semplificazione antropogenica degli ecosistemi; 3) privatizzazioni.
Il principio che invece ci dovrebbe ispirare sarebbe: “ciò che è dannoso per la Natura e la collettività è anche moralmente ingiusto” (p. 42). Conclude il testo l’idea che la conservazione non sia qualcosa di cui si devono interessare solo gli ‘ecologisti’, ma un’attitudine, “un modo di pensare, di agire e di rapportarsi con il mondo” (p. 45).

L’intervento di Manuela Giovannetti ha come titolo Agrobiodiversità e beni comuni. Inizia con una critica all’agricoltura industriale, in particolare quella che è stata battezzata ‘Rivoluzione verde’: “L’agricoltura che si è sviluppata a partire dalla metà del secolo scorso nei paesi occidentali ha rappresentato una delle attività umane a più alto impatto ambientale, che si è realizzato attraverso la lapidazione dei beni comuni quali l’acqua pura, l’aria salubre, il suolo fertile, la biodiversità vegetale, animale e microbica e le conoscenze accumulate nei secoli dagli agricoltori” (p. 81).
La sfida del terzo millennio sarà di “assicurare a tutti gli umani l’accesso al cibo”, tale da permettere una vita sana, salvaguardando allo stesso tempo l’ambiente e la biodiversità.
Per questo occorre sviluppare un’agricoltura ecologica, capace di salvaguardare la salute umana, del suolo e dell’ambiente e abbandonare quella industriale, ad alto input energetico.

Spesso pensiamo l’agricoltura come una rivoluzione benefica, ma se la guardiamo con un occhio da ecologo, le cose cambiano: la nascita dell’agricoltura, avvenuta circa 10000 anni fa, è “la prima causa di erosione genetica che ha portato a una grande riduzione della biodiversità”. Dalle 240000 specie di piante terrestri, la selezione artificiale ci ha portato oggi al fatto che solo 12 specie di piante rappresentano più dell’80% dei raccolti agricoli mondiali” (p. 82).

Cosa ha determinato il rapido successo della ‘Rivoluzione verde’? Fondamentalmente due strumenti tecnici 1) un alto input energetico: uso massiccio di pesticidi, erbicidi, fertilizzanti chimici, irrigazione, meccanizzazione; 2) utilizzazione di piante ad alta resa (es. grano, riso, mais), selezionate sulla base di modelli ideali, da far crescere nei diversi ambienti del mondo che vengono drasticamente manipolati proprio per rendere possibile la crescita di queste colture ‘ideotipo’.

Uno dei fenomeni negativi conseguenti a questa agricoltura è stata la perdita di fertilità dei suoli, degradati fisicamente, chimicamente e microbiologicamente. Tutto ciò ha quindi causato erosione, perdita di nutrienti, salinizzazione e desertificazione. Una vera chemioterapia, non più sanabile neanche con fertilizzanti chimici minerali.  
L’agricoltura industriale tendendo alla maggiore resa ha impoverito ancora di più la biodiversità, tanto che “oggi solo 14 specie ci forniscono il 90% del cibo di origine animale e solo 4 specie di piante rappresentano il 50% delle nostre risorse energetiche: grano, mais, riso, patate”, oltretutto di poche le varietà, geneticamente uniformi.

Cosa si intende con ‘ideotipo’? L’ideotipo è una coltura ideale, un’ipotetica pianta, sommatoria di tratti genetici, risultanti tramite incroci e selezioni mirate, adatti a produrre il massimo raccolto. C’è anche un manifesto ideologico: The breeding of crop ideotypes di C. M. Donald, scritto nel 1968. Un testo che “propone piante ideologicamente corrette da un punto di vista meccanicistico, considerandole oggetti che, ricevuto un input, producono un preciso e determinato output; e se l’ambiente non è adatto alla produzione dell’output desiderato, esso può essere modificato, utilizzando concimi chimici, pesticidi, irrigazione e quanto serve per ottenere il massimo raccolto” (p. 85).

Questa ideologia non si cura molto degli agroecosistemi, che, infatti, sono stati sempre più standardizzati e semplificati.
La riduzione delle biodiversità è un pericolo per la sicurezza alimentare poiché “le colture geneticamente uniformi sono fragili e intrinsecamente deboli, in quanto mostrano le stesse reazioni di fronte alle avversità climatiche, ambientali e alle malattie” (p. 86). Questo significa che, qualora si verificassero dei problemi ad alcune coltivazioni, l’agrobiodiversità garantirebbe una maggiore resistenza dei raccolti e quindi più sicurezza di accesso al cibo. Oltre a ciò, “proteggere la biodiversità equivale a proteggere non solo tutte le forme di vita, ma anche interi processi naturali e gli organismi che li portano avanti, come il processo di impollinazione da parte degli insetti e la rigenerazione della fertilità dei suoli da parte dei microrganismi” (p.87).

L’insostenibilità dell’agricoltura ad alto input energetico ha portato alla ricerca di alternative, che possono essere indicate in due filoni:
1) agrobiotecnologico: piante transgeniche, rese, per lo più, tolleranti ad erbicidi ed insetti dannosi. Un’agricoltura con alcuni rischi: possibile diffusione di geni tolleranti agli erbicidi (con conseguente proliferazione di ‘malerbe’ superinfestanti); intossicazione per organismi non-target (microfauna del suolo e microrganismi); monopolio del cibo: concentrazione nelle mani di poche grandi compagnie delle più importanti piante alimentari
2) agricoltura ecologica: cerca di preservare i cicli biogeochimici, riducendo così l’erosione dei suoli, l’irrigazione, l’utilizzo di fertilizzanti e pesticidi di sintesi.
Si appoggia e cerca di favorire le proprietà intrinseche dei suoli e rivaluta il ruolo dei microrganismi benefici che ristabiliscono, accrescono e mantengono la fertilità dei suoli. Ritiene che “le buone pratiche agricole dovrebbero tendere a massimizzare la presenza e le funzioni dei biota che complessivamente costituiscono la catena alimentare del suolo (soil food web) che è il primo indicatore di salute dell’ecosistema” (p. 91).
Che fare?La sfida del nuovo millennio è quella di produrre cibo evitando gli effetti estremi dell’agricoltura intensiva, realizzando sistemi agrari e utilizzando tecnologie, anche low-tech,  ma ad alta intensità di conoscenza, che integrino il sapere consolidato delle tecniche agrarie tradizionali con le nuove conoscenze ecologiche sulla complessa rete di interazioni che regola il funzionamento degli ecosistemi, le comunità microbiche del suolo e le loro interazioni con le piante” (p. 91).

Il testo di Tamino Biodiversità e beni comuni inizia con una chiarificazione terminologica: cosa si intende per biodiversità? “il termine biodiversità indica la varietà di forme di vita e include le variazioni a tutti i livelli della materia vivente, dai geni ai biomi, passando per gli individui, le popolazioni, le specie e gli ecosistemi” (p. 129). Il suo ruolo ecologico è quello di conservare le capacità autoregolatorie degli ecosistemi.
L’agricoltura industriale, come abbiamo già detto, non è molto interessata a questo, concependo piante e animali come macchine, che ‘vanno’ più a petrolio che a solare: il paradosso di questa agricoltura è che per ogni caloria di cibo ci vogliono dieci calorie di energia, utilizzando quindi più energia fossile che solare. La sua convenienza risulta solo illusoria, poiché non vengono considerati i “costi esterni, come i danni all’ambiente, al paesaggio e alla salute” (p. 133), che vengono scaricati sulla collettività, al contrario dei profitti, quasi tutti privati (soprattutto di multinazionali).

Quello a cui assistiamo, nello scenario globale, è il passaggio da un sistema per produrre cibo per una popolazione locale ad un grande mercato globale, in cui tutto è mercificato. In questo modo, la sicurezza alimentare è messa in pericolo. Lottare contro l’agricoltura industriale significa lottare contro un modello economico, basato sull’illusione dell’infinità delle risorse e sull’ideologia della crescita. Un sistema economico che si sta appropriando degli ultimi beni comuni ecologici: biodiversità, acqua, cibo. È un processo che va seriamente contrastato, favorendo la nascita di una comunità sostenibile, solidale e decrescente.

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