NON UCCIDERE. CRISTIANESIMO E CONDIZIONE ANIMALE

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di Giulio Sapori

Il comandamento ‘non uccidere’ non si riferisce solo all’uomo, ma a tutto ciò che vive. Questo comandamento era stato inciso nel cuore dell’uomo, prima ancora di essere scritto sulle tavole della Legge” (Lev Tolstoj)

Il bel libro Non uccidere: il cristianesimo alla prova della condizione animale di Adriano Mariani è un’indagine molto documentata, il cui intento è  “vagliare, alla luce del ‘principio nonviolenza’, la verità e i limiti del cristianesimo riguardo alla condizione animale”. È la filosofia come nonviolenza che giudica criticamente le religioni, poiché pone il rispetto della vita, e non quello per la tradizione, come valore fondamentale.

Una delle sviste etiche più drammatiche del cristianesimo è proprio quella della mancata presa in carico del ‘muto’ dolore animale, così “privo di speranza e di riscatto” (Edmondo Marcucci) da far calare una nera coltre sulla bontà della creazione. Sembra infatti che il Domine Deus Pater, fatto ad immagine e somiglianza dell’uomo-pater-dominus, sia indifferente alle loro grida.

Alcuni hanno tentato una trattazione di questo tema, ma come trattarlo? A parte coloro che giustificano il silenzio e l'indifferenza di Dio e degli uomini alla sofferenza animale, possiamo indicare due strade, intraprese dagli studiosi: la strada dell’annessione, che interpreta i testi in modo da mostrare il cristianesimo come religione nonviolenta, che ha favorito il rispetto dei viventi; e quella della separazione, sostenendo invece, come fa l’autore, che “il rispetto per tutte le creature viventi non è derivabile dalle Scritture”.

Occorre infatti distinguere il principio nonviolento dal credo monoteistico: il primo si basa sulla visione della sofferenza, e la conseguente volontà di volerla diminuire; il secondo, invece, riunisce una certa quantità di principi su molte questioni che spesso non hanno nulla a che fare con la diminuzione del male. Almeno così è nelle religioni abramitiche: un discorso a parte, a cui comunque il libro accenna, sarebbe da fare con le religioni orientali, molto più legate ad una visione unitaria della vita, con conseguente considerazione anche del dolore degli altri viventi: “Come te, tutti gli esseri tremano di fronte alla violenza, tutti amano la vita. Rispecchiandoti negli altri, non uccidere e non ferire” (Dhammapada - Gautama Buddha).

La stessa parola nonviolenza è la traduzione del sanscrito ahim
ā, “assenza del desiderio di nuocere o uccidere”, che è un importante precetto per jainismo, buddhismo e induismo.

Questa differenza ha a che vedere con un tratto molto forte delle religioni abramitiche: l’antropocentrismo, il ritenere l’uomo come unico soggetto di valore, centro padronale di tutta la creazione. Un’ideologia su cui molto hanno influito i celeberrimi versi del Genesi (1, 26-29): “Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci sul mare sono messi in vostro potere. Quanto si muove e ha vita vi servirà da cibo”.

Su questi versi ha scritto una cosa acuta lo scrittore boemo Milan Kundera, nel suo romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere: “subito all’inizio della Genesi è scritto che Dio creò l’uomo per affidargli il dominio sugli uccelli, sui pesci e sugli animali. Naturalmente la Genesi è stata redatta da un uomo, non da un cavallo. Non esiste alcuna certezza che Dio abbia affidato davvero all’uomo il dominio sulle altre creature. È invece più probabile che l’uomo si sia inventato Dio per santificare il dominio che egli ha usurpato sulla mucca e sul cavallo”.

Volendo poi essere più corretti, la concessione al domino sul resto del vivente, nel Genesi, è postdiluviana, cioè avviene dopo la distruzione del mondo da parte di Dio e, soprattutto, dopo la vita edenica, una vita in pace con il resto del mondo vivente, dove la nutrizione carnea era vietata: “ad ogni animale della terra… do per cibo il verde dell’erba” (Genesi 1, 30).

La cosa paradossale
, comunque, è che gli altri animali subiscano il dolore e la morte, conseguenti alla cacciata dall’Eden, a causa del ‘peccato originale’ commesso dagli uomini. Un quesito teologico che si faceva anche Elias Canetti: “Perché gli animali devono morire se non hanno peccato?”. A questo si aggiunge poi, ancora più inspiegabile, la loro sottomissione totale al dominio umano (il non-peccatore viene sottomesso al peccatore), con conseguente giustificazione della sarcofagia.

La visione che si propaga da qui sarà centrale per la diffusione della concezione che vede l’animale come oggetto che esiste per l’uomo, secondo quella ‘logica della dispensa’ (Henry Salt) o ‘teologia della bistecca’, come scrive l’autore, in cui l’esistenza dell’animale è ridotta al suo ‘esser-cibo’. Una ideologia fatta propria anche dagli stoici, a cui però Porfirio, giustamente, ribatteva: “se gli animali sono fatti per l’uomo, cosa ne facciamo di zanzare, mosche e vipere?”.

È triste dirlo ma la religione cristiana giustifica tutte le forme di violenza sull’animale-oggetto, favorendo praticamente solo una forma di contatto: quello a tavola, tra la nostra bocca e i pezzi cucinati del suo corpo.

Il vegetarismo non fu molto accettato dalla gerarchia ecclesiastica, anzi: fu addirittura dichiarato eretico durante il  Concilio di Ancyra (358).
Cosa c’è che non va in questo comportamento? Forse è la rinuncia alla reificazione della vita” (Gino Ditali)? O forse è la volontà di 'fare gruppo' (umanità) contro l’estraneo (animalità)? Ma può darsi che vi entrino cose più ‘banali’, come le abitudini alimentari, la “schiavitù psicologica” alla sarcofagia, come la definisce il teologo inglese Andrew Linzey.

Per essere chiari: il vegetarismo non si limita a “non mangiare carne”. Va oltre, cercando un senso di giustizia non basato sulla violenza e nuove modalità di vivere in accordo con il vivente. Una profonda svolta antropologica: una svolta di gentilezza. Per questo  motivo la dieta di Hitler, che per motivi di salute era spesso priva di carne, non può considerarsi vegetariana: il vegetarismo è veramente tale quando si basa sul più vasto principio della nonviolenza, quando va oltre il proprio piatto, pensando anche a ciò che quel mangiare implica.
La consapevolezza che vivere implica violenza non deve giustificare il non fare nulla per ridurla.

Vi sono anche alcuni studiosi che hanno proposto l’immagine di un Gesù vegetariano, vicino alla setta essena. Per l’autore, sono interpretazioni un po’ forzate, basate forse sul pregiudizio che vede il cristianesimo come sistema di pensiero perfetto e Gesù, o S. Francesco, come persona buona e infallibile: un pregiudizio molto diffuso che tende a polarizzare forzatamente il Bene dal Male.
Triste, ma più realistico, sarebbe ritenere che, seguendo il teologo Eugen Drewermann, “il rispetto per tutti i viventi ci è giunto nonostante la Bibbia”, e non grazie ad essa.

Questo principio fondamentale di rispetto dovrebbe giudicare criticamente le credenze religiose, arrivando anche al nostro allontanamento da esse poiché, prosegue il teologo ‘eretico’, “se Dio è indifferente alla sofferenza animale, noi possiamo essere indifferenti a Dio”. Infatti, una fede che non vede l’ingiustizia dell’atroce sofferenza animale è cieca e crudele, e quindi può essere abbandonata.

O tutta la vita sofferente viene salvata, o tutto è privo di senso; come la pietà è indivisibile, così la salvezza a cui dà diritto la sofferenza”. Questa è una delle questioni più impervie del pensiero teologico. Per dire: perché si muore? Il peccato riguarda anche gli animali? La reincarnazione riguarda solo gli uomini? Il paradiso è abitato solo da noi? Ma che paradiso è un luogo senza animali? E perché non dovrebbero esserci?

L’autore non analizza solo i testi canonici, dedicando un capitolo anche alla teologia di Vito Mancuso, moderna ma ancora teo-antropocentrica.
Va, però, qui fatto un appunto poiché, attualmente, vi è stata una svolta nonviolenta nella teologia di Mancuso che lo ha portato al vegetarismo, in precedenza da lui considerato in modo alquanto superficiale. Ha compreso probabilmente che è “testimonianza, qui e ora, di un mondo diverso”.

Infatti, nonostante le tante lagnanze e omelie sul nichilismo giovanile, dovremmo capire che non è nelle chiese che ci si oppone al nichilismo, non è in questi edifici che si trovano "nuove terre e cieli nuovi" ma, casomai, favorendo ed educando gli uomini a quella spontanea pietà e compassione nei confronti dei sofferenti, indifferentemente dal numero di zampe possedute. È uno sguardo e una sensibilità rinnovata quella che occorre cercare: il male non si fa, non perché è un ordine di Dio, ma perché è il corpo, nella sua vulnerabilità, che ce lo chiede, ha scritto il filosofo Ralph Acampora: come se ci dicesse: “non farmi del male”.
Rinnoviamo il nostro sguardo, non giriamolo dall'altra parte.

L’ultimo capitolo titola Oltre l’orizzonte biblico ed è un invito a pensare al di fuori del tracciato scritturistico: i testi sono testi, né divinità né esseri viventi, perciò vanno vagliati con razionalità e senso di giustizia (come indicava Gandhi), anche perché spesso “sopra di loro, dentro di loro c'è quel marchio triste, quell'impurità lebbrosa, il timbro del mattatoio (Guido Ceronetti) che li rende portatori di violenze.

Tutto questo va fatto non per sentirsi superiori ad essi ma, casomai per poter ripartire, con nuovi occhi, dal ‘basso’, cominciando da quel ‘primo gradino’ che, per Tolstoj, è il vegetarismo.
Come abbiamo visto, infatti, esso è un primo passo per immetterci seriamente sulla via impervia della nonviolenza, poiché è una pratica quotidiana che “discende direttamente dall’allargamento della sfera della compassione e del rispetto a tutte le creature con capacità di soffrire, dato che Dio non può averle create per destinarle al dolore e alla distruzione”.

E, allora, facciamolo 'sto passo!

(Adriano Mariani, Non uccidere. Il cristianesimo alla prova della condizione animale, Pisa Gandhi Edizioni, 2010)


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