DANZARE PER VIVERE

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di Giulio Sapori

"I giovani delle nostre discoteche sono avvolti in una danza solipsistica, dove anche quando si mimano gli atti del coito non si spezzano le pareti dell'incomunicabilità. L'eccesso d'energia sprigionata dai corpi, il tentativo di compensare con i gesti l'afasia del linguaggio, il ritmo meccanico che affoga l'espressività gestuale in una cadenza senza tempo, le luci stroboscopiche che, spezzando la continuità del movimento, ne inchiodano le forme, sono la parodia della danza, dove ciò che drammaticamente trapela è l'incapacità di riportare il corpo al centro della propria esperienza

(Umberto Galimberti, Orme del sacro, pag. 160)

Nella nostra società macchinica, dove si incontrano persone come spiriti linguistici dediti al lavoro e corpi come manichini, anche la danza viene svuotata della sua potenza: non più contatto sensuale, diretto, tra il corpo-vivente (Leib) e il mondo, ma strusciamento tra corpi-oggetti (Körper), in luoghi e tempi definiti.

Il corpo, all’interno delle mura della discoteca, risponde al dettato anonimo del ritmo, in modo sincopato, pavloviano: suono-movimento, suono-movimento.
Nella ripetizione inespressiva di suoni e movimenti, gli individui si perdono: risultano de-psicologizzati, burattinizzati. Sembra proprio che si balli per dimenticare se stessi e quella vita organizzata e alienata a cui partecipiamo, oscillante tra il guadagno e il consumo, e persa nelle parole che costantemente fuggono nei discorsi. Il ballo, lo stordimento del ballo, ci fa sentire la materialità del corpo.

Il problema è che l'esperienza che viene fatta del proprio corpo, in queste situazioni, è quella di un corpo-oggetto, in mezzo ad altri corpi-oggetti. Non ricuce la scissione tra noi-come-corpo e noi-come-immagine, ma appiattisce la materialità del corpo a quella dell'immagine sociale, di individui-marionetta.

Nelle discoteche si esperisce, in maniera vivida, quella ‘desublimazione repressiva’ di cui ci ha parlato Marcuse nel L'uomo a una dimensione, cioè la repressione data dal soddisfacimento immediato, e organizzato dall’alto, della sfera fisico-erotica. Il soddisfacimento immediato stordisce, quindi sottomette. Cosa più grave: la sensazione data dall'ottundimento viene scambiata, dagli individui, per libertà.

Ciò che vorrei suggerire non è un vacuo moralismo contro le discoteche (luoghi da evitare, di 'perdizione', ecc.), ma la possibilità di una danza diversa, espressione di un modo di stare al mondo diverso, un modo più libero.
La tragicità dell’uomo a una dimensione, messa in risalto dal ballo monodimensionale di molti giovani, è la scomparsa di un Altrove.

Per poter danzare liberamente va cercato questo Altrove, al di sotto della musica, del rumore, delle immagini e dei gesti imposti.
Per chiarire, quando dico Altrove non dico un posto lontano da quello che sto occupando in questo momento, ma un diverso modo di abitare questo momento, di vivere il proprio corpo, lo spazio, il tempo. Un diverso modo che non percepiamo perché siamo soffocati da un sovraccarico di realtà (sociale), da un profluvio di oggetti, eventi, sensazioni e emozioni indotte.

Va riconquistata un po' di distanza, per far passare un po' di aria. La riconquista di un Altrove è un problema sociale, ecologico e politico, e necessita di una vera rivoluzione. Per favorirla abbiamo bisogno di un soggetto diverso, che anticipi un diverso modo di stare al mondo. Ed è qui che la danza può aiutarci.


In quanto riunisce, nel gesto, materialità del corpo ed espressività comunicativa, la danza autentica dà un immagine unitaria dell'uomo, in relazione feconda con ciò che lo circonda e costituisce. Un'umanità rinnovata e rivoluzionaria dovrebbe favorire, quindi, un'antropologia danzante, nomadica, che attraversa il mondo senza schiacciarlo e senza usurarlo (una cosa su cui ha dato delle indicazioni anche Nietzsche).

Occorre allenarsi non tanto per diventare 'danzatori' o 'ballerini', ma per riprendere contatto con la forza espressiva del corpo come essere-nel-mondo, sapendo quindi che si può danzare senza bisogno di musica ("basta il vento", direbbe Maria Fux), senza bisogno di spazi e tempi definiti. E senza bisogno neanche di altri uomini che lo facciano con noi. Il mondo, se si fa più attenzione, è pieno di compagni di danza: foglie, pioggia, alberi, animali, nuvole.
Non viviamo per danzare, ma danziamo per vivere.


Colin Turnbull, antropologo britannico, nel libro I Pigmei, il popolo della foresta, racconta un episodio che illumina quello che sto cercando di dire. Episodio che si verificò quando si trovava presso i pigmei mbuti.

Una sera, nella piccola radura illuminata di una luce argentata, c’era il raffinato Kenge, con il vestito di corteccia ornato di foglie e con un fiore tra i capelli. Era solo e danzava e cantava sottovoce tra sé, con lo sguardo rivolto alle cime degli alberi.
Gli chiesi, in tono scherzoso, come mai stesse ballando e cantando da solo. Si fermò, si voltò lentamente e mi guardò come se fossi il più grande imbecille che avesse mai visto. “ma non sto ballando da solo”, disse. “Sto danzando con la foresta, sto danzando con la luna”. Poi, con la sua massima indifferenza mi ignorò e riprese la sua danza d’amore e di vita

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