BIOFILIA, TRA ONTOLOGIA E PSICOLOGIA

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di Giulio Sapori

"Non è così difficile amare la vita non umana, se si ha la fortuna di conoscerla. La capacità e persino la propensione ad amarla potrebbe essere davvero uno degli istinti umani. Il fenomeno è stato chiamato 'biofilia' e definito come l'innata tendenza a concentrare l'attenzione sulle forme di vita e su tutto ciò che le ricorda, e in alcuni casi ad associarvisi emotivamente". Così scrive il biologo ed entomologo Edward O. Wilson, nel libro Il futuro della vita (p. 132, Codice edizioni, 2004). Per Wilson la biofilia è un istinto, un tratto psicologico, tipico dell’umano, riscontabile in molti suoi atteggiamenti e preferenze.

Già nel 1984 l'entomologo aveva trattato il tema in un libro il cui titolo era proprio Biophilia. In Italia ora è appena uscito, per l'editore Carocci, il libro Introduzione alla biofilia, scritto da Giuseppe Barbiero e Rita Berto.
La concezione della biofilia portata avanti da questi autori è, fondamentalmente, psicologica, e spiega il piacere di passeggiare nei boschi, di osservare animali, di contemplare un paesaggio.

A noi, qui, piacerebbe collegare la dimensione psicologica ad una più propriamente ontologica, caratterizzante cioè la vita stessa.
La biofilia, come istinto umano, trae, cioè, forza da una caratteristica che attiene all'essere stesso.
La diffusione e il rinforzamento di questo istinto pensiamo sia una possibilità, oggi più che mai necessaria, per contrastare quell’ideologia necrofila propria della maggioranza delle società umane.
Riteniamo, invece, la necrofilia una caratteristica legata più propriamente alla civiltà e al suo sviluppo.
Dare forza all'istinto biofilico decentra la nostra prospettiva, connette con ciò che la civiltà allontana, e, così facendo, favorisce la protezione e la conservazione delle altre forme di vita presenti, insieme a noi, nella biosfera.

Partiamo dalla parola. Biofilia, etimologicamente, è traducibile con “amore per la vita”.
Amore è una parola carica di significati: qui possiamo ritenerla sinonimo di rispetto, parola che richiama, a sua volta, al ri-guardare (lat. respicere), cioè a un soffermarsi dello sguardo su qualcosa in cui riconosciamo un valore, una qualità, che non ci lascia indifferenti, tanto da innescare, spesso, degli atteggiamenti di cura.
In questo caso, il soggetto nel quale riconosciamo una fonte di valore è il vivente. Quando diciamo vivente non intendiamo tanto l'individuo astratto che si evolve e riproduce in un contesto-sfondo, quanto l'entità dinamica, processuale, dei singoli viventi-in-relazione. L’immagine più propria, da usare qui, è quella di rete. In sintesi, biofilia è sapere e sentire una connessione con gli altri viventi.

Al contrario, la necrofilia è concepire gli altri viventi come cose, oggetti, utilizzabili. La reificazione è la caratteristica più propria di questo sistema di pensiero. La necrofilia è sorta quando l’homo sapiens ha iniziato a concepirsi, illusoriamente, come separato dall'ecosistema, dal mondo della vita che lo attraversa e lo circonda.
La conseguenza di questo posizionamento simbolico è che non accetta più le leggi omeostatiche, 'armoniche', presenti nell'ecosistema ma vuole imporre la sua legge.
Il risultato è stato il degrado, sempre maggiore, della rete di cui lo stesso uomo è parte, quella stessa che lo ha fatto nascere ed evolvere. Un degrado visibile nell'impoverimento costante degli ecosistemi e della loro biodiversità.

Qualcuno dirà: ma che sarà mai rompere qualche nodo, consumare qualche filo, ce ne sono tanti in una rete!
In effetti, ve ne sono moltissimi, ma nessuno è ‘di troppo’.   La vita è, infatti, effervescente, eccessiva e, nello stesso tempo, unitaria. Un'unità differenziata, dove niente è ‘fuori posto’ e dove la molteplicità si coordina in un tutto dinamico.
Il degrado di fili e nodi causa, proprio per via della complessità della rete, una riorganizzazione non lineare, più o meno diffusa, del sistema complessivo.
Il processo degradante che l’uomo, con le sue attività, sta causando aumenta l'entropia degli ecosistemi, tanto da condurli, spesso, al collasso.

La vita si è diffusa limitando l'entropia, e questo è visibile, per esempio, nella catena trofica, dove non esistono rifiuti. Questo andamento autocatalitico, neghentropico, è stato fondamentale per la comparsa e la diffusione dei viventi, dove ognuno sostiene, in modo diretto o indiretto, la vita degli altri.
Come ha scritto la microbiologa Lynn Margulis, in Microcosmo: la vita non colonizzò il mondo attraverso il combattimento, ma per mezzo dell'interconnessione (networking)” (p. 29, Mondadori, 1989).
E questo mi preme dirlo anche perché troppe volte si è messo l'accento, come legge regolativa dell'evoluzione, sulla lotta, lo struggle, tra individui in competizione o, addirittura, tra i loro “geni egoisti”, spiegazione a cui si è dato molto risalto perché, indirettamente, funzionale ad una certa concezione sociale ed economica, basata su competizione ed egoismo.

La vita andrebbe intesa, quindi, non tanto come arena di lotta tra individui, ma come un processo plurale-singolare di entità in relazione che, tendenzialmente, accresce se stesso.
Non stiamo negando la presenza di lotta, competizione e predazione, ma le consideriamo come parte integrante di questo processo accrescitivo: non degradano la rete ma, casomai, l'arricchiscono, favorendo la comparsa e la diffusione di nuovi individui e nuove specie.

La vita stessa è, perciò, biofila, cioè “ama la vita” e coopera per meglio diffondersi. Questa spinta connettiva-cooperativa riteniamo sia più originaria e forte dei tanto famigerati 'geni egoisti'.

La biofilia non deve essere ridotta a semplice attitudine, passione, ma va considerata come qualcosa di fondamentale, attinente alla sfera dell’essere, più che a quella dell'avere: non è un caso che sia stato proprio Erich Fromm, autore di Avere o essere, a coniare il termine, concependolo come tratto caratteriale umano, radicato in un "orientamento totale" presente negli organismi viventi (la famosa volontà di vivere).

Questa nuova concezione della vita dà un sostrato più stabile alla biofilia propriamente 'psicologica'.
Come esperienza psicologica, la sensibilità biofilica scompagina l'identità simbolica, nella quale siamo incasellati socialmente, aprendoci a soggettivazioni deantropocentrate: "mi sento così solidale con ogni realtà vivente che non mi importa dove comincia e dove finisce l'individuo", scrive Albert Einstein.
Emerge, qui, uno statuto etico-politico dell'istinto biofilico, in quanto sospensione, deterritorializzazione, delle soggettivazioni sociali monodimensionali.
Ritrovarci nello spavento, nella tristezza, nella timidezza di un altro animale, rimanere affascinati dinanzi allo sbocciare di un fiore, ci fa sentire che il mondo è ben oltre le codificazioni linguistiche con cui lo descriviamo e le leggi umane con cui lo abitiamo, e fa sperimentare una sensazione forte di libertà che può anche inquietare, non ritrovando una realtà sociale alla sua altezza.

Pur essendo inscritto in noi, l'istinto biofilico va nutrito e protetto. La società, infatti, cercherà costantemente di ingabbiarlo e colonizzarlo all'interno di logiche proprie, come quelle consumistiche e proprietarie (vacanze 'verdi', acquisto di animali), privandolo così della sua carica eversiva, desoggettivante.
In mezzo a tante passioni tristi, è tempo di riscoprire e rinforzare una passione calda come la biofilia, credendo fortemente, con Rachel Carson, che "chi contempla la bellezza della Terra, trova riserve di forza che dureranno per tutta la vita. Esiste una bellezza simbolica, oltre che reale, nella migrazione degli uccelli, nel flusso e riflusso delle maree, e in un bocciolo pronto a fiorire in primavera. C'è qualcosa di profondamente terapeutico nei ritornelli della Natura: la certezza che l'alba arriva dopo la notte e che la primavera arriva dopo l'inverno".

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