ANNA MARIA ORTESE, LA VIVISEZIONE E I BENPENSANTI
di Giulio Sapori
“Così anche la nostra brutta salute (siamo imbottiti di medicine costosissime) sempre più decade, per un oscuro delitto - dirò proprio infamia - che è nel nostro consenso alla pratica medica, sperimentazione e vivisezione”
“Scrivo queste parole, forse debolmente - come ogni protesta non può essere che debole davanti all'atroce forza dell'ingiustizia -, pensando al colmo dei colmi - dopo l'atrocità degli allevamenti - raggiunto dall'uomo: la vivisezione”
Ho già scritto su Anna Maria Ortese e il suo volume Le Piccole Persone (Adelphi, 2016) qui.
In questo post vorrei soffermarmi su una delle questioni trattate dall'autrice: la vivisezione o sperimentazione sugli animali.
Lo faccio un po’ anche per rinnovare l’invito alla lettura di questa grande scrittrice e intellettuale, animata da un raro e saldo impegno etico a favore degli esclusi, degli ultimi e da una sensibilità che non faremmo torto a definire biocentrica.
Di vivisezione la Ortese ne scrive più volte, ma due sono gli articoli in cui spiega, in modo chiaro, la sua posizione.
Il primo, Uno strazio senza grido (Il Giorno, 13/04/73), è una prima risposta a una lettera inviata al giornale da una signora, in cui si sosteneva la necessità non solo scientifica, ma anche morale, della pratica della vivisezione in quanto attività funzionale al “benessere umano”: santo scopo che dovrebbe tacitare ogni limite morale.
La Ortese, nella sua risposta, cerca di mostrare la cecità insita nella logica utilitarista e antropocentrica utilizzata dalla signora, completamente indifferente alla soggettività e al dolore animale.
Il suo intervento cerca, innanzitutto, di mettere in primo piano la vita offesa e straziata degli animali, il loro dolore, la loro singolarità negata.
“Ogni giorno che si leva sul mondo, per gli animali sottoposti al controllo e dominio scientifico, è un giorno di paura o di strazio, spesso spaventoso strazio, che bisogna sopportare senza grido, anche il grido dà fastidio, il grido attraverso cui il dolore esce a fiotti. In silenzio. E a causa di questo silenzio la cosa sembra morale, utile, lecita”.
“Gli orrori della vivisezione sono tali, che solo il silenzio intorno ad essi può renderli possibili. Oppure questa convenzione: che gli animali soffrono meno dell’uomo, o non soffrono affatto. Ma i medici scrupolosi, quando interrogati, abbassano la testa; altri non rispondono, o si limitano a dire che ‘è necessario’”.
Davanti al dolore e alla sofferenza che non possiamo non vedere, la domanda che dovrebbe sorgere spontanea è: “perché mai, nella logica comune dei benpensanti, di persone anche colte, buone, delicate, il dolore umano viene sempre considerato ingiusto, un male da eliminare, una specie di vergogna che impegna la società a combatterlo con tutte le sue forze, mentre poi, costantemente, il dolore animale, anche il più terribile, è accettato come una fatalità, non solo, ma se deve procurare qualche nuovo beneficio all’uomo, è una fatalità benedetta? Perché questa differenza tra corpi viventi che, se tormentati o straziati, soffrono ugualmente?”
Perché accade questo? Cosa ci rende tanto ciechi?
L'autrice scava nel profondo dell'utilitarismo, vedendone il presupposto arazionale, folle: la certezza granitica della nostra superiorità, a cui tutto sembra sacrificabile.
È proprio questo punto cieco che l'autrice riprende e sviluppa nel secondo articolo, Occhi tristi come i tuoi (15/04/73), dove indaga quella che chiama la 'macchia' dell'intelligenza umana:
“Questa intelligenza, o genialità umana, come una forza chiaramente estranea alla composizione, l'evoluzione e forse le finalità del mondo, erompe nel mondo (nell'uomo), ma non in tutti gli uomini - la gran parte degli uomini hanno semplice vita e dignità animale -, e guida quindi tutti gli altri uomini per generazione di millenni, verso uno sviluppo che alla gran parte degli uomini resta sempre esteriore, estraneo. Si direbbe che questa forza viva, di sé per sé, con un fine suo, che pare questo: la scomposizione costante del mondo naturale - il mondo incontrato da questa forza nel suo viaggio -, la sua distruzione, il suo rifacimento secondo un piano di questa “forza” o “orgoglio”: rifacimento che non può e non deve tenere conto del dolore già presente nelle cose, deve procurarne altro, sperimentarne altro, per costruire non so che cosa”.
L’intelligenza utilitaristica e strumentale, dice la Ortese, è sempre più qualcosa di mostruoso, poiché si autonomizza a tal punto da non avere altra finalità che non sia l’aumento costante della propria potenza.
A questa intelligenza abbagliante e orgogliosa ma priva di scopo, l'autrice ne accosta un'altra, più mite e armonica. Un'intelligenza che riconosce i propri limiti e che si pone in ascolto dell'altro da sé, non per manipolarlo, ma per lasciarlo respirare. Un'intelligenza che, invece di ridurre il mondo a oggetto d'uso, riposiziona l'uomo nell'“inutile” sperpero del mondo della vita, riconoscendo che “tutti noi, in certo senso, siamo inutili, e inutili tutte le nostre vite, anche le più gloriose, se non abbiamo compreso la grandiosità di questo incontro, di questa avventura forse irripetibile (forse d'immortale destinazione), la vita”.
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