TAUROETICA. RECENSIONE AL RIDICOLO LIBRO DI FERNANDO SAVATER

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di Giulio Sapori

Questo libro, meglio pamphlet, nasce come presa di posizione di Savater contro la decisione politica, da parte del Parlamento della Regione autonoma della Catalogna, di abolire la corrida.
Il libro si divide in due parti: la prima tratta l'etica verso gli animali; la seconda tratta, più specificatamente, la moralità della corrida.

Il tono è molto superficiale: più 'da osteria' che da saggio filosofico. In una nota a pagina 14, l'autore sostiene che, citando a memoria Orwell, "con vegetariani, comunisti (e, aggiunge Savater, sostenitori dei 'diritti' degli animali) non si può discutere": questa nota a pié pagina va presa come programma del pamphlet: l'autore non argomenterà razionalmente la sua tesi ma ripeterà più volte che i barbari sono quelli che vedono somiglianze tra uomini e animali, quindi hanno loro il dovere di argomentare a favore di questa 'bislacca' tesi (che Dio li fulmini!), e quindi anche sul perché la corrida sia immorale.

Nella prima parte, intitolata 'il nostro atteggiamento morale verso gli animali', l'autore tratta la riflessione etica riguardo al nostro rapporto con gli animali, ma lo fa in modo molto frettoloso, prendendo in considerazione, volgarizzandola, la posizione di Peter Singer, considerata pars pro toto delle posizioni del movimento di liberazione animale.
Qual è la posizione etica dell'autore nei confronti degli animali? Molto semplice: l'etica consiste nel "riconoscimento di ciò che è umano e nei doveri che abbiamo nei confronti dei nostri simili" (pag. 106). Vera barbarie non è procurare sofferenze e ammazzare animali non umani ma "non saper distinguere tra la condotta da tenere con gli uomini e quella da adottare nei confronti degli animali" (pag. 58), dimenticando quel "vincolo reciproco tra esseri razionali" (pag. 107), essenza vera dell'etica. Come può riconoscere un liceale è una posizione kantiana, estremamente discontinuista: l'uomo è libero (dalla Natura) poiché razionale, quindi non ha vincoli se non verso i propri simili (qui avrebbe vincoli categorici!).
L'uomo non è un animale che si adatta all'ambiente ma lo trascende, fino al punto, dice Savater, di essere cosciente del massimamente altro dal qui-e-ora della vita, cioè la morte. Questo, a quanto pare, ci darebbe il diritto di negare violentemente tutte le alterità 'minori'.


Riflettendoci un attimo, possiamo confermare che l'uomo è veramente libero, autonomo e cosciente di morire? Quando parlimamo di uomini parliamo di corpi viventi finiti o di anime immortali infinite? Quando parliamo di libertà intendiamo libertà dal corpo o libertà del corpo, situazionata? Infine, possiamo veramente dirci coscienti della morte? La morte, diceva Freud, è irrappresentabile: vediamo solo corpi morti, e questi corpi sono sempre di altri (paradosso ben descritto nell'Ivan Il'ič di Tolstoj). Tutto ciò non è affatto problematizzato, negando, alla radice, quello che ci accomuna al mondo animale, dimensione ignobile che non va presa in considerazione: molto più bella è l'infinità della legge morale in noi che trova come polarità verticale l'infinità del cielo stellato sopra di noi. Il corpo è semplice res extensa, comune a tutti gli oggetti, animali o meno.

Eppure, come possiamo riconoscere l'uomo, da trattare sempre come 'fine in sé', se non attraverso il corpo? Il bambino a cui, kantianamente, dobbiamo dare aiuto (p. 106) non è degno di ciò proprio perché massimamente, fisicamente, vulnerabile? Non è proprio questa vulnerabilità, propria ai viventi, il punto da cui partire?
Per Savater, no. Anzi, questo proposito è immorale. L' etica, per lui, è forma: uno stampino fatto a immagine e somiglianza dell' uomo da applicare a ciò che incontriamo nel mondo. Ma questo stampino esiste? è possibile dichiarare in modo definitivo questo è un Uomo? Non è questa astrazione ciò che ha permesso, e permette, le più grandi barbarie, in quanto umani siamo sempre noi e chi ci assomiglia (uomo, bianco, ariano, ecc.)?

Ma, seguiamo un poco la 'logica' della riflessione dell'autore. L'uomo è diverso dagli altri animali in quanto libero, cioè slegato dagli obblighi naturali, dunque etico. Ma che ci farebbe l'uomo con questa superiorità? Si rinatularizza, riconoscendo necessario (categorico!) il rispetto solo nei confronti dei cospecifici, in maniera più forte anche dell'istinto. L'uomo, quindi, non è un egoista obbligato: sceglie di esserlo: chi non riconosce questa 'sublime differenza' è un barbaro!

In effetti, è un po' difficile discutere con uno che 'argomenta' in questo modo, in cui la grandezza dell'uomo è che può fottersene del resto del vivente in quanto non umanamente razionale. Dice di aver dedicato anni della sua vita allo studio dell'etica, tanto da consigliare il silenzio a scrittori che si pronunciano su tali questioni (come Julian Barnes), obliando che la questione dell'Altro, del diverso, del differente e la responsabilità nei suoi confronti è la questione principe dell'etica contemporanea
L'etica non inizia forse quando rispondiamo allo sguardo dell'altro, ontologicamente diverso da noi per via dell'età, dello status sociale, del 'colore', del sesso, della nazionalità, della religione, della specie? Lo sguardo in difficoltà, sofferente, è tale a prescindere dalla totalità delle categorie che abbiamo imparato, e che la filosofia ha spesso formalizzato in modo gerarchico (in particolare quella a cui si rifà Savater, cioè da Aristotele a Kant). Di più quelle categorie sono servite da velo per non vedere quello sguardo e per giustificare le violenze su di esso.

La posizione dell'autore è essenzialistica: da una parte c'è l'Uomo, che va trattato eticamente; dall'altra gli animali che vanno trattati, in particolar modo se addomesticati, secondo le finalità umane: sono, ontologicamente, per noi (p. 40). Qui si è costretti a rileggere... come? Ce lo ripete anche nel finale (p. 112): l'uomo è 'Creatore' di questi animali, dunque libero di trattarli secondo gli scopi che lui decide: il maiale è giusto che diventi prosciutto perché noi lo abbiamo modificato apposta; il toro non ne parliamo vista la vita 'da milionario' (giuro che riesce a dirlo, e a ripeterlo!) che trascorre prima della corrida, passando il tempo a brucare liberamente erba.

Qui si vede come gli animali, per Savater, siano oggetti distanti sideralmente da noi. Come possiamo provare compassione per delle cose? Infatti è totalmente insensato, peggio, una barbarie vestita con un "comportamentismo zoofilo spiritualizzato e condito di buddismo a bagnomaria" (p. 103). Infatti, ci spiega lo ‘sferzante’ autore, la compassione è la cosa più innaturale che ci sia (in barba ai neuroni specchio!), quindi non puoi agirla se non riconoscendo la specificità antinaturalistica dell'uomo e, riconoscendola, essere obbligato a comportartinaturalisticamente’ cioè fregartene del resto del creato, proprio come ogni altro animale (e neanche). Un po’ confuso, no? In sintesi: siamo superiori agli animali perché proviamo compassione, e questa nostra differenza va usata, non per compiere atti compassionevoli (come vale per Tolstoj), ma per giustificare moralmente ogni nefandezza, mettendo a tacere quel sentimento spontaneo che ci fa soffrire quando vediamo la sofferenza altrui. Innaturale non sarebbe negare questa spontanea e transpecifica condivisione emotiva? 

Savater ha poche brutte idee e molto confuse: vuole poter continuare a mangiare carne e guardare corride pensando addirittura di fare un gesto 'retto' (gli animali sono statti creati per quello). La cosa che più infastidisce è l'arroganza e la superficialità sfottente con cui tratta un argomento che dovrebbe considerare le sofferenze e lo strazio degli animali, quegli animali che noi stessi siamo, e che ideologicamente ci nascondiamo di essere.

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