GLI ANIMALI CI TRATTANO MALE. RECENSIONE AL LIBRO DI GERARD WAJCMAN

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di Giulio Sapori

“Memorabile”, sostiene Slavoj Žižek, riguardo questo libro. Incuriosito da questo commento riportato sulla quarta di copertina, ho preso l'esile libro (60p.) e me lo sono letto.
Andiamo al dunque: perché gli animali ci trattano male? Perché ci mostrano indifferenza. La rivelazione 'pascaliana' avvenne, sulla via di un safari, per la risposta offensiva di tre leonesse affamate che, invece di ricambiare l'interesse che i turisti, tra cui l'autore, mostrano nei loro confronti, guardano all'orizzonte alla ricerca di prede. Questo è il 'trauma' da cui parte l'autore, psicoanalista e maître de conferérences di psicoanalisi presso l’Università di Paris-VIII.
L'indifferenza, come si sa, fa male. La domanda che si pone l'autore è: perché siamo così appassionati a degli animali che non ci guardano neppure? perché essere interessati a questi strani esseri, tanto da andarli a spiare in ogni momento della loro vita, visto che non ci ricambiano l'interesse?
Per l'autore qui si consuma una "tragedia amorosa" (p.21): noi li guardiamo innamorati ma loro no, rimangono indifferenti. E' un rapporto idealizzato: l'animale è l'innocente, l'esempio da seguire in ambito sessuale, politico, morale: "Siate scimmie!" è l'ingiunzione della scienza, a detta dell'autore.
Sotto accusa non è solo questa idealizzazione, ma anche l'ideologia darwiniana di "supporre una continuità tra cognizione animale e cognizione umana" (p.26). La somiglianza uomo-animale, per l'autore, la si può trovare nei veri cacciatori che, come Atteone, si immedesimano nelle prede che stanno cacciando o in casi estremi, come quello di un partigiano con le mani legate che, prima di essere giustiziato da soldati nazisti, morde violentemente al collo quello che avrebbe dovuto ammazzarlo.
Questa ferocia la scienza vuole cancellarla attraverso la numerazione, la statistica: non c'è più animale selvatico perché sono tutti già cifrati, catalogati e seguiti.
Nel finale l'attenzione attuale verso gli animali, e la loro preservazione, viene interpretata come un modo per dimenticare il XX sec., "come se voler salvare animali significhi l'impotenza di salvare uomini" (p.33).
Gli argomenti trattati sono quindi: 1) l'indifferenza della natura selvaggia nei nostri confronti; 2) la proiezione delle nostre fantasie di innocenza sugli animali; 3) la catalogazione-amministrazione scientifica del mondo.
Un libricino dove il sarcasmo vince di molto sull'argomentazione, e questo è un peccato. Cosa intenda per animale non si capisce bene: parla soprattutto di quelli selvatici, e traspare la solita visione dell'animale come essere tutto istinto: status di cui anche l'uomo può fare esperienza, ma solo in casi estremi come quello del morso del condannato a morte. E' una visione poverissima di animale, che non si pone il quesito se esista veramente questo animale al singolare.
L'autore, si capisce, è interessato solo a discreditare, soprattutto in modo ironico, le scienze contemporanee che tanto hanno rivalutato l'animalità dalla dimensione cartesiana, meccanica, dell'essere tutto istinto. Se vuoi capire l'animale vai da un cacciatore, non da uno scienziato, sembra dirci l'autore.
Alla fine, l'attenzione per gli animali (selvatici), come gli orsi nei parchi naturali, viene letta come un non voler fare i conti con il XX sec.: vogliamo preservare gli animali perché non abbiamo capito ancora come farlo con gli uomini. Pensiero alquanto strambo visto che dal 1970 al 2010 la popolazione umana è cresciuta del 185% mentre quella degli animali selvatici è diminuita del 60%.
L'autore non prende in considerazione che ripensare l'animalità non è un semplice modo per non pensare all'umanità, ma è un tentare di andare al fondo ontologico-carcerario dell'umanità, non per negarlo, ma per di andavi oltre.

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