LO SGUARDO ANIMALE. A PARTIRE DA UTOPIE MINIMALISTE DI LUIGI ZOJA

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di Giulio Sapori

Cosa è mancato alle grandi utopie del XX secolo? La psiche, l'intima soggettività, sembra suggerirci lo psicoanalista di fama internazionale Luigi Zoja, nel libro Utopie Minimaliste (Casa Editrice Chiarelettere, 2013).

Le utopie massimaliste, quelle cioè fiorite con le rivoluzioni del XX secolo, nonostante gli ampi meriti di alcune a favore della giustizia sociale, peccarono un po' troppo di astrattezza e tracotanza, soffocando presto quello slancio di pensiero e sentimento che le aveva fatte nascere, ma che velocemente può affievolirsi, fino al suo completo spegnimento nella gestione burocratica dell'esistente. La Storia mostra anche che "nella escatologia rivoluzionaria il rischio di rinviare i comportamenti etici è quasi assicurato: nel frattempo resta in vigore un’«etica della transizione» ispirata al cinismo".


Sarebbe però un grande errore concludere che, visto quello a cui hanno portato, le utopie siano fallite, e quindi da mettere in cantina. Non è lo slancio utopico il problema, anzi, ma la sua hybris, il voler cambiare tutto e subito, senza passare per la coscienza dei singoli. Il problema è il massimalismo, in una parola.


L'utopia minimalista, indagata ed incoraggiata in questo libro, è più realistica: accende una fiamma e se ne prende cura affinché non diventi incendio. Il modo per far questo, come nell'arte di accendere un falò, è partire dal basso, o meglio, dal 'dentro', da quel vuoto necessario alla vita della fiamma, analogo a quello che attiva il desiderio e anima la coscienza, nella convinzione che "ogni faticoso miglioramento delle condizioni della società inizia nella coscienza dell’individuo".
Questa è la condizione per la nascita e la durata di un vero cambiamento.


Molte utopie novecentesche, oltre al massimalismo, hanno sofferto di 'azionismo'  (rimprovero che Adorno fece ad alcuni gruppi studenteschi sessantottini), attivismo cieco che incide esteriormente e nel breve periodo, senza dare il tempo necessario alla 'fatica del concetto' e alla soggettivazione psichica della novità. Più della soggettivazione è presente, in molti gruppi, un'oggettivazione, spesso paranoica, del nemico. Appena scompare il nemico esterno, scompaiono anche i soggetti, formati in opposizione ad esso.

Minimalismo non significa quindi 'minoritismo', ma radicamento. Con le parole dell'autore: "Un’idea di uomo nuovo prodotta dall’esterno è poco praticabile e pericolosa. Una utopia minimalista dovrebbe favorire novità interiori all’uomo, valorizzando doti umane che sono già in lui". Ci permette, in altre parole, di diventare ciò che siamo: Werde, der du bist, per citare Nietzsche.

La soggettività è, infatti, un movimento nel movimento del mondo. Abbiamo il dovere etico di interessarci al essa se non vogliamo che sia l'impersonalità sociale ad irreggimentarla in percorsi prefissati.


Il 'processo di individuazione' (Jung), fine in-finito dell'analisi, è un'azione di pulitura e di liberazione da tutti quei legami reificati che impoveriscono la vitalità psichica ed emotiva dell'individuo. Non è un trattamento per chi va 'fuori di testa', ma la riproposta del socratico 'conosci te stesso', sapendo quanto sia importante questa conoscenza per garantire uno spazio di libertà.

La ricerca del 'chi siamo' infatti è un viaggio nello spazio relazionale, reale e immaginario, in cui viviamo. Non per raggiungere una solipsistica pace interiore, ma per vedere più chiaramente. Conoscere se stessi significa infatti conoscere le relazioni che ci abitano, per sperimentare più liberamente la vita. E' un percorso critico, soprattutto verso se stessi, ma non solo.

La vera autocritica è sempre anche critica sociale, poiché la nostra soggettività è inscindibile dal sociale e dal suo tempo. L'utopia si inserisce, nel discorso sociale dominate, a mo' di forcipe etico-epistemologico per aprire uno spazio di possibilità, un tempo nuovo per lasciar accadere cose nuove.

In questo orizzonte di possibilità, si situano i movimenti che chiedono l'allargamento del cerchio del rispetto alle 'altre vite' (animali, vegetali, ambientali), come titola il penultimo capitolo, nonché una delle parti più interessanti e inaspettate del libro.

L'animalismo e l'ecologismo (in particolare quello profondo) vengono letti come movimenti d'avanguardia, che criticano la razionalità strumentale a favore di una nuova alleanza tra cuore e pensiero che faccia  "sentire la comunanza con la terra, le piante e gli animali, e che costituisce oggi la premessa psicologica per il più importante riscatto politico-economico di tutti i tempi: quello dell’ambiente terrestre".


Quello che contraddistingue il pensiero antispecista è l'assenza di volontà di dominio: non vuole il Potere, ma un mondo più giusto. "Questo pensiero e questo sentimento non cercano un capro espiatorio su cui scaricare ogni colpa, e non compiono quella fuga ideologica dalla responsabilità chiamata massimalismo. Richiedono al contrario un atteggiamento davvero nuovo e rivoluzionario: l’autocritica di ogni essere umano".

Non c'è un 'libro sacro' a cui appellarsi, una dottrina salda e inconfutabile a cui far riferimento, ma l'incontro con quell'immane violenza, sofferenza e morte che, senza pensarci, procuriamo al resto del vivente. Una vera rivelazione che spesso conduce a quei cambiamenti di vita, considerati corrivamente mere 'mode'. Di questo incontro ci parla Zoja, in alcune bellissime considerazioni:

"Perché lo sguardo di un animale ferito può sconvolgerci più di quello umano? In assenza di parole, che l’animale non sa pronunciare, l’occhio di un essere guarda quello dell’altro, e ne è ricambiato. La parola è asimmetrica: va da un organo - la bocca a uno diverso – l’orecchio -, significando la differenza gerarchica: abitualmente, l’uomo dà il comando, l’animale obbedisce.

L’incrocio degli occhi rivela invece all’uomo la possibilità di trovarsi sullo stesso piano e lo sforzo per usare uno stesso tipo di comunicazione. A questo punto, la sofferenza nello sguardo rivela il tentativo di trovare un perché e di esprimerlo. Si tratta di un bisogno primario, che hanno da sempre anche gli umani e deve essere stato fra i fattori che portarono i nostri antenati a inventare il linguaggio. Nella morte di un animale, il sanguinare, l’emettere suoni contorti, lo sconvolgimento del corpo, tutto rivela un’estrema comunanza tra l’uomo e un’altra forma di vita."

"L’animale che soffre e che muore è un grande rimosso dell’inconscio collettivo
. Ritrovarselo inaspettatamente sotto gli occhi supera dunque di colpo una millenaria, automatica negazione: può quindi essere addirittura più sconvolgente del tormento di un uomo.


"L’animale è, pigramente, da sempre, concepito come cosa, anche perché nel diritto è una proprietà: ma, osservandone lo strazio, è improvvisamente percepito come simile. Come soggetto autonomo e non come semplice oggetto".


"Vedere la sofferenza e la morte di un animale è spesso un evento inatteso nel soggetto che osserva: la sensazione di assurdità e di inaccettabilità non deriva solo dalla violenza, ma può trascinare con sé la rivelazione di un male sconosciuto in cui tutto un mondo è immerso. Non scoperchia solo un pozzo che riguarda la nostra persona: tutti cerchiamo di dimenticare che esistono la sofferenza e la morte (di qualunque forma vivente) e veniamo presi dall’angoscia quando questa conoscenza rimossa torna ad affiorare. Lo scempio degli animali, invece, può dire di più. Il loro massacro si compie ogni giorno a milioni vicino a noi, ma lontano dai nostri occhi e dai nostri racconti. Il rimosso che ritorna è l’intera storia della unilateralità ‘imperiale’ che l’uomo ha adottato verso la natura

Il 'primo gradino' (Tolstoj) per un mondo più giusto, è un gesto semplice ma decisivo: cercare di sospendere le razionalizzazioni che difendono la nostra coscienza, ma offendono il mondo. Una metànoia quanto mai urgente.

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