CACCIA ED ECOLOGIA. RECENSIONE AL LIBRO DI CARLO CONSIGLIO

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di Giulio Sapori 


Ci sono troppi cinghiali, lepri, caprioli, ecc.”; “Gli animali selvatici, senza predatori, aumentano eccessivamente”; “Gli animali selvatici diffondono malattie, arrecano danni ad agricoltura e piscicoltura”.
Queste sono idee molto diffuse, diremmo luoghi comuni, sugli animali selvatici che Carlo Consiglio, già professore ordinario di Zoologia all’Università di Roma La Sapienza, decostruisce in un agile libro titolato Divieto di caccia (Sonda, 2012). Un libro che critica razionalmente la pratica venatoria, ripulendo il discorso da tutte quelle idee fossilizzate che rendono tuttora la caccia un’attività accettata socialmente, nonostante una diffusissima antipatia di fondo.


Il primo luogo comune da sfatare è quello del ‘sovrannumero’ dei selvatici. Infatti “come ci insegna l’ecologia, tutte le popolazioni animali si accrescono secondo una curva ‘sigmoide’(p.11): gli animali crescono fino ad un punto, detto ‘d’inflessione’, dove la popolazione continua ad aumentare a velocità decrescente, fino a raggiungere un tratto orizzontale. Qui si raggiunge la capacità portante della popolazione in quell’ambiente, cioè lo stop alla crescita della popolazione in quell’ecosistema.
Il sovrannumero possiamo dire sia un concetto molto più politico che ecologico: non ha a che fare con la verità ma con gli interessi, politici e di categoria.

Questo ci porta a sfatare il secondo luogo comune, secondo cui, scomparsi i predatori, gli animali 'predati' aumenterebbero eccessivamente di numero.

Anche questa è una falsità perché le popolazioni animali hanno, normalmente, una regolazione interna al gruppo. I predatori non sono i regolatori delle specie predate, ma casomai sarebbe più giusto affermare il contrario, ossia: è “il numero di prede disponibili che controlla la grandezza delle popolazioni dei predatori”: più prede, più predatori; meno prede, meno predatori.
Ciò che distingue i predatori dai cacciatori è inoltre la loro azione ‘sanitaria’, abbattendo, per lo più, esemplari vecchi o malati, cosa che non accade quando a cacciare sono gli uomini.

Terzo: le malattie degli animali selvatici non si combattono ammazzando ma, casomai, vaccinando. E’ così che, nel 1981, in Svizzera si è sconfitta la rabbia silvestre portata dalle volpi. Prima di tale intervento le volpi, in molti Stati europei, furono massacrate in modo brutale senza che questo cambiasse la gravità dell’epizoozia. Delle volte poi le malattie recedono da sé.
La caccia potrebbe, paradossalmente, causare una diffusione delle malattie, favorendo la fuga degli animali in altre zone.

L'Autore passa ad indagare i danni a boschi, agricoltura e piscicoltura.
Partendo dalla costatazione che gli animali selvatici non hanno mai distrutto un bosco o una foresta per il troppo brucare, essendo pascolo e brucamento benefico alla diversità floristica (secondo varie teorie), l’eventualità che, a causa della pressione antropica, si possa verificare l’effetto ‘trappola ecologica’, legato al fatto che gli animali selvatici, per ragioni di sicurezza, si ammassano in troppi nei boschi, rovinandoli, la soluzione non è certo la caccia, ma casomai è una delle cause del fenomeno, in quanto attività che terrorizza gli animali.

In agricoltura, gli uccelli accusati di danni sono storni, passeri, gazze e cornacchie, ma hanno anche un’azione benefica poiché si nutrono di moltissimi insetti dannosi (es. lo storno preferisce le olive contenenti la larva della dannosissima mosca olearia).
I danni causati da lupi si possono limitare tramite recinzioni ben fatte e cani da pastore.
Le volpi si nutrono, per buona parte, di carogne e Roditori. Per i danni ai pollai basta, anche qui, aver costruito una buona recinzione.
Le nutrie possono causare danni agli argini dei fiumi, benché la causa prima sia la dissennata rimozione della vegetazione ripariale che, con le radici, mantiene compatti gli argini. La soluzione sta nel rinforzare questi argini tramite reti apposite, che favoriscano la vegetazione spontanea.

Il cinghiale può causare seri danni all’agricoltura, ma occorre ripetere che “la vera causa di tali danni in Italia è proprio la caccia, e più particolarmente i ripopolamenti venatori, che hanno portato questa specie anche dove era assente” (p.17)
La caccia va a disturbare il complesso equilibrio della popolazione di cinghiali, causando una maggiore prolificità delle femmine, non è quindi utile. Le recinzioni elettriche, al limite tra macchia e coltivi, sono la soluzione più efficacie per limitare i danni dei cinghiali.
I cormorani, abilissimi nuotatori e pescatori, sono i principali accusati dai piscicoltori. La soluzione, per limitare i danni alla piscicoltura, starebbe nel creare una ‘barriera’ di nylon sopra al livello dell’acqua, più che nel loro abbattimento.

Dopo questa prima chiarificazione, l’autore analizza le varie teorie che renderebbero compatibile la caccia con la conservazione ambientale, la più famosa delle quali è quella del ‘surplus’ teorizzata da Errington nel 1929, basata sull’idea che sfruttare l’estivo ‘surplus’ di animali (che si perderà in inverno), cacciandoli nel periodo autunnale, non causerebbe alcun danno. Il loro numero verrebbe poi ‘compensato’ in primavera.
Il problema di questa teoria, si verifichi o meno la compensazione primaverile, è di produrre una selezione artificiale, molto più grossolana di quella naturale, che a lungo termine altera il pool genetico della specie.
‘Surplus’, o sovrannumero, come abbiamo visto sopra sono concetti antropocentrici, non ecologici. In più, la caccia si pratica non solo in autunno ma, attraverso deroghe e concessioni, tutto l’anno. 

Altra teoria giustificazionista è quella della ‘rendita continua massima’: se preleviamo, in una popolazione che ha raggiunto la ‘capacità portante’, metà degli individui, questa dovrebbe reiniziare a crescere.  Il problema è capire quale sia la ‘capacità portante’, oltre a quello recato dimezzando la popolazione: conservare infatti “non può essere un concetto solo qualitativo: anche la quantità è importante”(p.21).

I danni da caccia possono essere distinti in:

1) Danni diretti: morte e sofferenze agli animali non umani e agli umani che soffrono per le loro sofferenze, tra le altre cose: saturnismo (per il piombo delle cartucce), ferimento (non si fa sempre ‘centro’), rottura di legami emotivi tra animali (materni, di coppia, di amicizia)

2) Danni indiretti: disturbo venatorio (modifica negativamente il comportamento degli animali); inquinamento (piombo); ripopolamenti (inquinamento genetico ed estinzione di specie autoctone)

Altre cose interessanti su cui ci fa riflettere il libro:
Chi decide la specie cacciabile? Fondamentalmente le tradizioni. Qualora si scegliessero specie abbondanti, questo risolverebbe tutti i problemi? Macché! Oltre l’85% dei reati di bracconaggio sono compiuti da cacciatori ‘in regola’. I censimenti sono affidabili?  Ma se il più delle volte sono affidati agli stessi cacciatori! Il carniere pone dei limiti al numero di animali ammazzabili? Un limite illimitato: 2 miliardi di capi (in Italia ci sono meno animali selvatici di quanti ne possiamo cacciare!)

Oltre all'ecatombe di animali, ogni anno perdono la vita, in media, più di 20 uomini e feriti oltre 80.

Il penultimo capitolo è scritto da Massimo Tettamanti, chimico ambientale e criminologo forense, e tratta dell'insicurezza e pericolosità di avere un’arma in casa, oltre a quella legata al suo utilizzo in ambito venatorio.

Nell’ultimo capitolo si considerano gli aspetti psicologici, o forse psicopatologici, che animano la ‘passione venatoria’. Concludono il libro le tristi storie di caccia, vissute e raccontate dal guardiacaccia Giancarlo Ferron, nel tentativo di guardare la caccia dal punto di vista dell’animale cacciato, in questo caso un capriolo ferito, con la pancia aperta da una pallottola, che cerca disperatamente la fuga da una muta di segugi:

“Non sono descrivibili i lamenti e le grida di terrore che sentii quel giorno. I tre cani lo mordevano e lo strappavano da tutte le parti. Mi precipitai là per fare qualcosa, ma quando arrivai un segugio lo aveva afferrato alla gola e lui stava già morendo”. Ecco questa è la caccia.



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