SOVRAPPOPOLAZIONE E DISTRUZIONE DELL'AMBIENTE (MASSIMO LIVI BACCI)

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Se la maggiore domanda di cibo implica, almeno in parte, un’intensificazione dell’agricoltura, allora i mutamenti nell’utilizzo dei suoli possono mettere in pericolo aree che già si trovano in fragile equilibrio. Le alterazioni dell’habitat non sono, naturalmente, un fatto nuovo nella storia. Il volto dell’Europa è assai mutato dal Medioevo ad oggi, al passo con la graduale erosione del manto boscoso del continente. In generale, si è stimato che l’estensione della terra coltivata si sia moltiplicata per 6 dal 1700 al 1980, un aumento meno che proporzionale all’espansione della popolazione. Nel 1989-91, 130,4 milioni di chilometri quadrati della superficie terrestre erano suddivisi come segue: 14,4 milioni di chilometri quadrati (11,0%) per coltivazioni agricole; 33,6 (25,8 %) per pascoli permanenti; 39 (29,9 %) per boschi e foreste; e 43,4 (33,3 %) venivano classificati come “altra superficie” (terre non coltivate, praterie non dedicate a pascolo, aree umide; aree costruite ecc.). Soffermiamoci sui mutamenti che investono l’estensione delle foreste –il cui valore per l’equilibrio bionaturale del mondo è fondamentale.
La deforestazione del bacino amazzonico è forse il fenomeno che desta maggiore preoccupazione e dibattito. Si stima che la deforestazione abbia intaccato tra il 15 e il 20 % del manto, soprattutto a partire dagli anni ’40 del secolo scorso, e per cause molto semplici: per acquisire estensioni da dedicare ad allevamento e coltivazioni agricole sotto la spinta della domanda di popolazioni in espansione; per la produzione di legname; per la prospezione mineraria e petrolifera; per opere infrastrutturali; per l’immigrazione.
Fenomeni simili sono avvenuti, o stanno avvenendo, in altre parti del mondo. Mutamenti di questa natura, se continuassero a lungo, provocherebbero una profonda modificazione della faccia della Terra. Se ci affidiamo alle stime della Fao le tendenze recenti hanno risultati misti: a livello mondiale, il tasso di deforestazione si sarebbe attenuato tra il 1990-2000 e il 2000-2010 (dimezzandosi da -0,2% all’anno a -0,1 %), ma i ritmi di deforestazione rimangono molto alti in Africa, in America Latina e nei Carabi; in altre regioni del mondo –Europa, Asia orientale,- si sono invece realizzati guadagni della superficie boscata.

L’incidenza della crescita della popolazione è evidente nel caso di ambienti fragili come le foreste tropicali. Benché vi sia controversia circa la velocità del processo di deforestazione, c’è concordanza sul fatto che la causa principale sia la preparazione del terreno per le coltivazioni- particolarmente in Africa e in America Latina- dove avvengono circa i due terzi della deforestazione. Il ritrarsi della superficie forestale è la diretta conseguenza della crescente domanda di cibo e di legname e, indirettamente, della crescita demografica. Indagini macro, nelle quali le unità sono i singoli paesi, riscontrano una relazione positiva tra tasso di crescita della popolazione e velocità di deforestazione, ma questa relazione è relativamente debole per l’opera di altri fattori: la possibilità di intensificazione, la densità demografica, la legislazione in essere, l’assetto istituzionale. Gli studi di casi individuali, invece, hanno chiaramente descritto situazioni nelle quali la deforestazione si è prodotta per effetto della pressione demografica in contesti tanto diversi come quello delle Filippine – dove la migrazione dalle terre basse, densamente insediate, verso l’interno montagnoso scarsamente popolato ha prodotto una rapida deforestazione- ai casi del Guatemala, Sudan e Thailandia. In genere, c’è un’interazione tra rapida crescita della popolazione, povertà e degrado ambientale. La povertà è associata all’alta fecondità poiché i figli – in assenza di sistemi pubblici sanitari e pensionistici – sono un’assicurazione contro la vulnerabilità della vecchiaia. La scarsità di capitale e di risorse di base – come acqua e legna per usi domestici – sostengono l’alta fecondità poiché i bambini forniscono lavoro e reddito. Infine l’alta fecondità determina alti tassi di crescita che danneggiano ulteriormente le risorse ambientali, particolarmente quando queste sono beni comuni.

La crescita delle aree costruite per uso abitativo, industriale, commerciale o ricreativo, per trasporti e comunicazioni e per altri scopi è un altro aspetto della trasformazione dell’uso dei suoli che non può continuare per sempre. Una forza trainante di questi processi è l’urbanizzazione. Secondo le stime e le proiezioni delle Nazioni Unite (vedi figura in alto), la popolazione urbana è cresciuta dal 28,8 % della popolazione del mondo nel 1950 al 50,5 % nel 2010; oltre tre quarti delle popolazioni sviluppate vivono oggi in aree urbane, e si prevede che una maggioranza delle popolazioni dei paesi meno sviluppati sarà urbanizzata a partire dal 2020. Una crescente proporzione della popolazione urbana vive poi nei grandi agglomerati e nelle megalopoli: in America, sia del Nord che del Sud, circa un abitante urbano su cinque vive in agglomerati che superano i 5 milioni di abitanti; uno su sei in Asia, uno su dodici in Africa.
Dati riguardanti un insieme di paesi europei mostrano – come del resto era da attendersi –una relazione diretta tra densità della popolazione e proporzione della superficie costruita: il minimo si trova in Lettonia ( 6% della superficie occupata per finalità residenziali, commerciali e industriali e una densità di 36 abitanti per chilometro quadrato) e il massimo in Olanda (37 % e una densità di 487). La concentrazione della crescita demografica nelle aree costiere è un altro problema potenziale; è stato stimato che alla fine del secolo scorso circa due terzi della popolazione mondiale vivesse entro 60 chilometri dalla costa: “ Conseguentemente la pressione ambientale sulle terre e le acque costiere diviene progressivamente più intensa con l’aumento delle superfici costruite, l’inquinamento, il depauperamento e l’esaurimento della fauna marina (…). La vulnerabilità ecologica delle aree costiere è stata resa evidente negli ultimi anni dai ricorrenti disastri naturali ( tifoni, inondazioni da alta marea) che hanno colpito le zone deltaiche dei paesi del Sud e del Sud-Est asiatico, particolarmente nel Bangladesh, e che hanno creato molti problemi di protezione ambientale” (B. Zaba e J.I. Clarke, Introduction: Current Directions in Population-Environment Research, Liège, 1994).

Infine, un cenno alle complesse relazioni tra popolazione, clima e i suoi mutamenti. Questo è un argomento assai intricato e tecnicamente complesso, che qui viene toccato solo di sfuggita. E’ oramai provato che l’aumento delle emissioni di gas serra dovuto alla crescita della popolazione e del volume delle attività umane sia alla radice del riscaldamento in atto da qualche decennio. Si calcola che il volume delle emissioni di gas serra (per i quattro quinti anidride carbonica) tra il 1970 e il 2004 sia cresciuto dell’ 80 % e a questo incremento abbiano concorso tutte le attività umane ( produzione di energia, le attività industriali, quelle agricole, residenziale e commerciali, i trasporti). Potremmo dire – adattando l’equazione di Ehrlich – che l’impatto ambientale dovuto ai gas serra (I) è il risultato dell’azione congiunta della popolazione, del livello economico e della tecnologia impiegata (cioè P, A e T). Scrivendo vent’anni addietro, Bongaarts aveva stimato che all’aumento della popolazione spettasse circa la metà dell’incremento delle emisioni tra il 1985 e il 2025 (J. Bongaarts, Population Growth and Global Warming, New York, The Population Council, 1992). Le ultime complesse simulazioni condotte dall’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) basate su ipotesi circa lo sviluppo della popolazione, la crescita economica, l’andamento delle emissioni, hanno confermato che la tendenza al riscaldamento proseguirà durante il secolo e che a fine secolo (il decennio 2090- 99) la temperatura media del globo sarà più alta, tra 1,8 e 4 gradi centigradi a seconda delle ipotesi, rispetto alla fine del ventesimo secolo (1980-99).

In che misura, e in che modo, il riscaldamento globale influirà sui fenomeni demografici? Prima di avanzare qualche considerazione, va tenuta presente l’estrema adattabilità climatica della specie umana che fino dal paleolitico troviamo insediata alle latitudini più diverse e negli ambienti più estremi. E senza le protezioni che l’esperienza e le tecnologie hanno via via reso disponibili. Oggi, gli abitanti di Irkutsk, quasi un milione, vivono a una temperatura media annua di un grado sotto lo zero (e a gennaio il termometro segna mediamente -20 °C). Gli abitanti di Mascate, capitale dell’Oman, 29 gradi di latitudine più a sud della città siberiana, vivono a una temperatura media annua che sfiora i 30 °C. Verrebbe da dire che un aumento di qualche grado, spalmato su quasi un secolo, non dovrebbe avere conseguenze rilevanti. Ma questa conclusione sarebbe una semplificazione eccessiva, e nasconderebbe molti aspetti negativi che è bene citare. Primo, una notevole variabilità del mutamento climatico nelle varie aree del globo, con un impatto particolare in aree fragili o marginali. In particolare le aree costiere sarebbero assai più vulnerabili a inondazioni, con conseguenze negative rilevanti per vaste popolazioni.
In secondo luogo l’inaridimento di vaste regioni a basse latitudini e una perdita di produttività delle coltivazioni cerealicole.
In terzo luogo una redistribuzione geografica di agenti patogeni e, nelle aree soggette a maggiore riscaldamento, un aumento di alcune patologie infettive e della malnutrizione.
In ultimo, un’accresciuta morbilità e mortalità conseguente a ondate di calore, alluvioni e siccità.

I quattro punti discussi nei due ultimi paragrafi rendono manifesta la complessità della relazione tra crescita demografica e ambiente. Questa relazione è influenzata per molte vie dal numero degli abitanti, dal volume e dalla natura delle attività umane. L’inevitabile crescita della popolazione nella prima metà del secolo, e l’aumento del benessere, determinerà una crescente domanda di materie prime, alimenti e spazio; depaupererà alcune risorse fisse e ne metterà sotto pressione altre che sono rinnovabili. Lo sviluppo tecnologico potrà neutralizzare parte degli effetti negativi, aumentando i processi di sostituzione e controllando l’inquinamento; l’azione istituzionale potrà raggiungere analoghi obiettivi, regolando l’uso dello spazio, l’accesso alle risorse e via dicendo; mentre mutamenti culturali potranno anch’essi contribuire a questo fine, determinando cambiamenti dei modelli di consumo e di comportamento.
Tuttavia, tre punti debbono essere riaffermati: il primo è che la crescita demografica non è neutra nei confronti dell’ambiente; il secondo, che segue dal primo, è che un rallentamento della crescita può facilitare la soluzione dei vari problemi; il terzo è che mai nel passato l’impatto dell’attività umana che minaccia l’ecosistema planetario è stato così forte come oggi. E’ quindi prudente moderare i rischi, e il rallentamento della crescita demografica contribuisce a questo fine.


(Massimo Livi Bacci, Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino 2011, p. 312)



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