OLTRE L'ORNAMENTO. GLI ALBERI IN CITTÀ

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di Giulio Sapori

Nulla è più sacro, nulla è più esemplare di un albero bello e robusto.(...) Gli alberi sono santuari. Chi sa parlare con loro, chi sa ascoltarli, conosce la verità. Essi non predicano dottrine o ricette, predicano, incuranti del singolo, la legge primordiale della vita

Herman Hesse, Il Canto degli alberi

La domanda da cui vorrei partire è: che rapporto ha la città con i suoi alberi?
Per rispondere a questa domanda penso sia utile cominciare dalle etichette usate, normalmente, per indicarli: “alberi ornamentali” e “verde urbano”.
Questo perché noi non abitiamo il mondo, ma quel mondo che i significati e i concetti configurano, quindi risulta molto importante analizzare le parole utilizzate proprio per capire i nostri comportamenti verso ciò che è altro da noi.

Cosa dicono le espressioni sopra riportate?
“Verde urbano” è un'etichetta che sa di burocrazia. Verde è parola spesso usata quando si parla di natura, piante e alberi. Una parola amorfa, come amorfi sono il prato, le montagne e le chiome degli alberi nei disegni dei bambini. Insomma: non dice nulla ma pretende di dire tutto.

L'espressione “alberi ornamentali”, invece, indica una loro presunta funzione di ornamento e decoro: gli alberi e le piante abbelliscono, arredano, la città, al punto che, sovente, è addirittura proibito avvicinarsi con il cane (li sporcherebbe!).

Ciò che intendo sostenere è che, all’interno dei confini definiti dall’amorfo ‘verde’ e dall’oggetto ‘ornamentale’, non è possibile fare alcuna esperienza dell’albero come essere vivente, in relazione con noi e con tutto ciò che lo circonda. Questa immagine poi rende accettabili tutti quei 'delitti' che compiamo quotidianamente nei suoi confronti.

Sempre più studi e libri mettono in evidenza la complessa vita delle piante e degli alberi, la loro intelligenza, comunicazione, socialità. Libri come Verde brillante del neurobiologo vegetale Stefano Mancuso o La vita segreta degli alberi di Peter Wohlleben hanno il merito di diffondere una diversa immagine di questo mondo, così vicino e così lontano dal nostro. Nonostante ciò, ancora gli alberi e le piante vengono costantemente tagliati,  maltrattati, soffocati in ogni maniera.
Non intendo qui parlare di quei 13.000.000 di ettari di foresta che ogni anno vengono tagliati dalla specie umana (il drammatico fenomeno della deforestazione), ma degli alberi che ogni giorno vediamo, spesso senza farci molto caso, nelle nostre città.

Che rapporto abbiamo con loro? Quanto sappiamo di loro? Che posto rivestono nella nostra vita?
Domande che appariranno strane a molti proprio perché, i più, non percepiscono gli alberi come esseri viventi, ma come oggetti amorfi del loro campo visivo. Come se gli alberi fossero capelli che possono sì abbellire un volto, ma sempre subalterni a tutti quei negozi, uffici, strade o nobili facciate (chiese, palazzi, monumenti) che si ergono intorno a noi.  

Uno dei motivi di tanta 'deficienza' è che, a livello sociale, l’ignoranza del mondo vegetale (e animale) non è ritenuta una mancanza. Cultura è sapere che Passero solitario è una poesia di Leopardi e Gelsomino notturno di Pascoli, ma non importa sapere che tipo di uccello sia, come canta, dove viva, il passero solitario (Monticola solitarius) o che pianta sia, come profuma, fiorisce, il gelsomino notturno (Cestrum nocturnum).
Il mondo naturale è considerato non come ciò che in fondo noi stessi siamo, ma come una branca del sapere da lasciare agli scienziati e al loro pensiero strumentale.

Le scoperte della scienza vanno reinquadrate all'interno della nostra esperienza, lasciando spazio e ascolto alla singolarità ineffabile dell'altro: "Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa",
recita il celeberrimo verso di Gertrude Stein.
Fare, cioè, in modo che questo sapere permetta di percepire più intensamente il reale, facendo cadere quella separazione illusoria tra soggetto-attivo e oggetto-passivo, propria del modo scientifico di porsi.
Occore perciò un pensiero diverso, più aperto. Mentre, infatti, il pensiero strumentale “si pone innanzi” sempre e solo oggetti (ob-jectum), entità passive su cui si impone l’attività del soggetto, il pensiero 'ascoltante' si fa presso l’altro lasciando che l’altro si mostri, perdendo quella distanza protettiva nei confronti del mondo.

La protezione epistemologica impedisce di comprendere ciò che abbiamo intorno. Sappiamo, infatti, che per capire l’altro occorre un po’ diventare-altro: per capire un bambino occorre diventar-bambini, per capire un cane occorre diventar-cani. Ma è possibile, qualcuno si chiederà, fare lo stesso con piante e alberi? Non sono troppo diversi da noi? Forse sì, ma non così tanto come pensiamo.

Normalmente si usa l’espressione “diventare un vegetale” quando si vuole indicare una persona che vive ‘solo’ biologicamente (come chi è in coma), mancante delle capacità di decidere, di nutrirsi autonomamente e di comunicare con i suoi simili. Ma è un’espressione che denota un'ignoranza completa nei confronti del mondo vegetale. Le piante, infatti, si nutrono da sole, comunicano in continuazione con conspecifici ed eterospecifici (soprattutto attraverso messaggi odorosi) e, a seconda delle informazioni ricevute, decidono cosa fare (quando fiorire, come difendersi). Non sono dei pazienti, come gli uomini in stato comatoso, mantenuti in vita da macchinari, ma degli agenti in costante dialogo con ciò che li circonda.

Diventare-albero, significa allora, restituire lo statuto di vivente e di agente al vasto mondo delle piante e degli alberi.

Il problema, infatti, è che di tutta questa vita non percepiamo quasi nulla: gli alberi e le piante ci sembrano cose immobili, indifferenti al mondo e a noi. Una percezione che può un poco variare quando entriamo in un bosco o quando, d'estate, sentiamo i profumi dei fiori e dei frutti, richiami odorosi e succulenti anche per noi. Ma, in fondo, la loro immagine rimane quella di oggetti belli o di macchine 'produttrici' di frutti, ossigeno e legno.

Diventar-albero, 'arborescere' per usare una parola coniata da Plinio il Vecchio, significa prendere maggiore consapevolezza del dialogo in cui, volenti o nolenti, già siamo, anche solo per il fatto di respirare. 

Come possiamo, dunque, rapportarci diversamente con le piante, a cominciare da quei giganti silenziosi all'ombra dei quali camminiamo?

Qui può aiutarci il filosofo e teologo Martin Buber, il quale distingue due tipi di rapporto: quello io-tu (dialogo) e quello io-esso (reificazione, riduzione dell’altro a cosa). Abbiamo una rapporto io-tu quando riconosciamo la relazione come fondamento del reale, io-esso, invece, quando riteniamo fondamentale il rapporto soggetto-oggetto. Questa differenza Buber la spiega proprio attraverso l’incontro con un albero:

Mentre osservo un albero vedo la sua forma, la sua chioma verde. L’albero mi appare come un pilastro immobile avvolto di luce. Posso classificarlo, conoscere la sua specie e vedere com’è fatto e come vive. L’albero rimane sempre e solo un esso nella relazione con me.
Può capitare d’improvviso che io venga coinvolto nella relazione con l’albero, esso allora diventa esclusivo, diventa un tu. Per fare questo non occorre che io dimentichi o lasci le mie osservazioni precedenti, anzi, esse sono presenti tutte insieme in unità. Occorre passare dal molteplice all’unità per incontrare il Tu ed entrare nella relazione. Allora l’albero non sarà più una immagine o uno stato d’animo, ma un corpo vivo davanti a me, che ha a che fare con me ed io con lui. Se l’albero abbia una coscienza non è possibile esperirlo, ma tale quesito mi fa uscire dalla relazione con l’albero, facendolo diventare nuovamente un esso: quello che c’è davanti a me nella relazione fondamentale io-tu è l’albero stesso, nella sua unicità

Dobbiamo dimenticarci di noi, in quanto individui assoluti e proprietari, per far accadere questo incontro tra singolarità già da sempre relate.

Gli alberi, poi, danno tanto senza chiedere nulla: assorbono l’anidride carbonica trasformandola in composti organici, liberano ossigeno, mitigano il clima, arricchiscono il terreno con la decomposizione delle loro foglie, trattengono il terreno evitando i fenomeni di erosione e smottamento, rendono bello il paesaggio, ospitano mammiferi, uccelli, insetti, funghi. In breve: rendono la vita possibile.

Oltre a questo, noi uomini li abbiamo usati per scaldarci, proteggerci, cucinare, foggiare strumenti, costruire. In breve: hanno reso la civiltà possibile, una civiltà che si è stupidamente espansa proprio in opposizione alla Natura. Ora ci proteggono anche dai suoi effetti collaterali, come l'inquinamento dell'aria e dell'acqua. 
Quando, dunque, inizieremo a considerarli con più riguardo?


L'incontro con l'albero ha sempre qualcosa di magico, soprattutto nell'infanzia, ma forse c'è qualcosa di vero in questa magia perché, come scrive Anna Cassarino, nel libro Alberi della civiltà. Gli alberi che difenderanno il nostro futuro, «veri, potentissimi maghi, possono chiamarsi quelli che sanno vivere migliaia di anni e viaggiare senza spostarsi, trasformare l’aria in cibo e neutralizzare i veleni, trattenere le montagne e rallentare il vento, offrire riparo e, soprattutto respiro».

Questi potenti maghi hanno reso e rendono la nostra vita possibile, molto più di tutte le nostre invenzioni culturali: ora sta a noi cercare di proteggerli, di averne cura. Proteggerli, in primo luogo, dall'ignoranza civilizzata e dall'onnivorismo economico.

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