VULNERA VITAE, TERREMOTI ED ECOAPPARTENENZA

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di Giulio Sapori

Da qualche mese una serie di terremoti sta facendo tremare l’Italia centrale: il 24 agosto è crollata gran parte di Amatrice; il 30 ottobre, invece, grossi danni li hanno subiti Norcia e Castelluccio.
Terremoti minori continuano a esserci, tuttora.
Si è parlato molto di questi terremoti in televisione, alla radio, nei giornali.
In questo post vorrei proporre una riflessione più generale che, a partire da eventi del genere, parli dell'uomo, della Terra e degli altri animali.


Dopo un terremoto, ha scritto il filosofo e saggista statunitense Ralph Waldo Emerson in Condotta di vita, “impariamo la geologia, su diagrammi spettrali di montagne spaccate, di pianure sollevate e del letto asciutto del mare”. E cosa impariamo dalla geologia, da questi mutamenti spesso catastrofici? Dicono qualcosa di noi, della nostra condizione?
Nonostante sia considerata una materia tecnica, penso che la geologia possa offrirci un punto di osservazione radicale, proprio perché non antropocentrico, per comprendere meglio, non solo il rapporto dell'uomo con la Terra, ma anche con tutti i suoi abitanti.

Il fondatore della geologia moderna è ritenuto James Hutton, il quale, nel 1785, formula una teoria dove si afferma che la Terra modifica costantemente la propria forma: un'idea rivoluzionaria rispetto all’ideologia fissista, dominante per secoli, che voleva la conformazione terrestre ‘fissata’ in modo definitivo da Dio.

Questa nuova visione fu poi sistematizzata, tra il 1830 e 1833, da Charles Lyell, nei Principles of Geology, opera cardine della geologia moderna, in cui è supportata sia l’idea di una Terra in costante mutamento, oggi come in passato (attualismo o gradualismo), sia l’idea di un tempo molto più profondo dei 6000 anni ipotizzati da teologi del tempo. Per Lyell, come per Hutton, in un tempo così contratto non si potevano spiegare le formazioni terrestri: ce ne voleva molto di più. Fu così che si aprì il tempo all'indefinito. Un tempo che, oltretutto, non lasciava il mondo inalterato ma che, questo un punto fondamentale, modificava in continuazione le forme terrestri. La Terra, cioè, si evolveva.

Questa nuova visione dello spazio e del tempo fu centrale per la formulazione di una delle teorie scientifiche più osteggiate della storia: l’evoluzionismo darwiniano.
Il primo volume dell’opera di Lyell, appena uscito, fu studiato dal giovane Darwin durante il celeberrimo viaggio intrapreso sul Beagle. E fu proprio la forma mentis da geologo, non inficiata da finalismi e personificazioni provvidenzialistiche, a giocare un ruolo di primo piano per la nascita della sua teoria. Una teoria disturbante, non solo per aver collocato l'uomo tra gli altri animali (cosa che altri studiosi avevano già fatto), ma per il ruolo centrale assunto dalla casualità.

Per Darwin, la vita, come la crosta terrestre per Hutton e Lyell, non si muove verso uno scopo, non segue un progetto necessario, non porta a compimento un programma definito una volta per tutte da una qualche divinità, ma si configura come un evento contingente, soggetto al mutamento. Questa teoria, posta all'interno della cornice epistemologica aperta dalla geologia, diede un forte schiaffo all’antropocentrismo padronale tradizionale, in cui la stabilità della Terra e delle specie si legava a quella del potere e delle tradizioni.

Dell'instabilità dell'ordine naturale, Darwin fece esperienza in prima persona, durante la sua permanenza in Cile, per via di un forte terremoto. Egli si trovava lontano dall'epicentro ma, nei giorni seguenti, visitò le aree colpite. Ciò che vide lo descrive con un misto di stupore e terrore,  fascinans et tremendum, tra le cose più interessanti sperimentate nel viaggio e, nello stesso tempo, tra le più spaventevoli.
La visione della distruzione prodotta dalla scossa lo fece riflettere, non solo sui movimenti tellurici, ma anche sull’estrema fragilità dell’uomo e delle sue creazioni: “È una cosa dolorosa e umiliante vedere opere che sono costate all’uomo tanto tempo e tanta fatica crollare in un minuto” (4 marzo 1835, in Viaggio di un naturalista intorno al mondo).
L'esperienza del terremoto, visto con uno sguardo geologico, non provvidenzialistico, porta cioè a piena coscienza la naturale fragilità dell’uomo, essere strutturalmente contingente.

Questa lucidità di coscienza la possiamo ritrovare anche negli scritti di un contemporaneo di Darwin: Giacomo Leopardi.
Nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, composto nel marzo del 1824, la fragilità della “razza” umana è rappresentata, addirittura, trattando della loro avvenuta estinzione:

Folletto. Tu che sei maestro in geologia, dovresti sapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo pochi ossami impietriti. E certo che quelle povere creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che, come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare in perdizione.
Gnomo. Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli.
Ecco l'altro punto importante: la coscienza della propria vulnerabilità dovrebbe portare l’uomo ad un atteggiamento e a una pratica di maggiore umiltà: il mondo e gli altri viventi non sono qui per lui, come un qualcosa che gli appartiene, ma appartengono, con lui, al mondo e sono, come lui, frutto di caso e necessità.

Uno dei problemi maggiori da affrontare oggi riguarda proprio il ripensamento dell’appartenenza umana al resto del vivente (o eco-appartenenza), a partire da questo orizzonte afinalistico.
Chi è il mio prossimo? Come devo rispondere alla vulnerabilità altrui? Di questi problemi imprescindibili possiamo fare esperienza, in maniera più chiara, in tempi crisi e di emergenza, tempi in cui si sfaldano le coperture simboliche che servono a tranquillizzare e proteggere le nostre esistenze, silenziandone le fragilità, e dove risulta fondamentale l'incontro tra corpi.

E' proprio in questa esposizione indifesa del nostro corpo a quello altrui che potremmo sentire più prossima la fragilità degli altri corpi animali, e lo spessore di silenzio che copre il loro destino. Destino doppiamente tragico è quello degli animali “da reddito” poiché di loro, della loro paura, della loro sofferenza, dei loro lamenti non si scrive né si parla. La loro orribile morte in questi disastri, per la società, è un semplicissimo “danno economico” subìto dall’allevatore.
Molti piangono per le chiese cadute (di cui, certo, possiamo dispiacerci), ma considerano normale lo strazio di tutti quei corpi.
A questo poi c'è da aggiungere che, benché gli animali allevati siano le vittime maggiori di questi disastri (solo ad Amatrice più di diecimila ne sono morti sotto le macerie), i corpi spezzati di altri di loro vengono offerti agli eventi 'solidali' per sostenere i danni causati dai suddetti disastri.

Si sa che il senso di solidarietà collettiva che nasce nei momenti di crisi è fondamentale per attutire il disorientamento degli individui e delle comunità, aiutando a superare quella ‘crisi della presenza’, di cui ha parlato Ernesto de Martino, che fa traballare il sentimento di sicurezza esistenziale, basilare per vivere. Ma l'allargamento di questa solidarietà, amicizia, rispetto e compassione ai soggetti non-umani, che soffrono come noi e, spesso, più di noi, non priverebbe di nulla l'uomo ma, casomai, lo arricchirebbe, con nuove e diverse relazioni.

Vedere il mondo dal punto di vista della geologia, con il suo tempo abissale e l'assenza di finalità nei cambiamenti che avvengono, ci porta a concepire una contingenza radicale che ferisce qualunque ordine che l'uomo cerca di imporre al mondo: il potere e l'efficienza tecnica funziona fino ad un certo punto: il caso non è domabile in modo assoluto. Questo non è fatalismo, ma un fatto, che comunque non ci esime da fare il possibile per proteggere la nostra vita. Ma, va rimarcato con forza, rimaniamo animali, corpi viventi, figli del caso, imparentati a tutti gli altri corpi viventi.

A tal proposito, vorrei rievocare il senso dell'ultima lirica di Leopardi, la Ginestra o il fiore del deserto. È una lirica dove si mostra il vivente nell’esposizione radicale al suo possibile annientamento. L’“odorata ginestra” vive sull’arida schiena dello “sterminator” Vesuvio che irride le “magnifiche sorti e progressive” dell’uomo, il suo “fetido orgoglio” che “d'eternità s'arroga il vanto”. L’orrore del proprio annichilimento che, per primo, “strinse i mortali in social catena, non riguarda solo l’uomo ma tutti i viventi.
La sorte umana, per Leopardi, non è diversa da quella delle formiche o dei fiori, nonostante il suo “forsennato orgoglio” lo pretenda. Ed è per questo che l’uomo dovrebbe imparare dalla ginestra, “più saggia”, poiché, nel deserto e nel dolore, fiorisce e sparge il suo profumo.

La saggezza, ci dice questa poesia, sta nel riconoscere che vi sono cose che non possiamo modificare, come la nostra reale vulnerabilità ai fenomeni naturali (eruzioni vulcaniche, terremoti, tsunami, ecc.) e cose che, invece, possiamo modificare, come il modo in cui affrontiamo la nostra e l'altrui vulnerabilità, ovvero come viviamo (culture, tradizioni, abitudini, ecc.).
Una vulnerabilità che, vorrei ripeterlo, prima di essere degli edifici, è dei corpi, anche di quelli a cui la società ha rifiutato il fatto stesso di essere corpi, riducendoli ad oggetti.
La posta in gioco, a mio parere, sta nel provare a pensare una comunità che riconsideri, oltre alla vulnerabilità degli edifici, quella dei corpi, di tutti i corpi.

Per concludere direi, quindi, che non tutti i muri andrebbero riedificati, non tutta la normalità, se impedisce di sentire i lamenti e la sofferenza altrui, ricomposta. Un momento di crisi potrebbe anche essere un momento di cambiamento, di ripensamento.
La geologia, oltre a spiegarci l'origine dei terremoti, come scienza della contingenza radicale, potrebbe aiutarci in tal proposito, insegnando che la storia del mondo è una storia di cambiamento costante, dove nulla è salvo. Nulla è salvo ma, nello stesso tempo, neanche solo. Queste sono le basi su cui si potrebbe edificare una società realmente solidale.

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