APPUNTI SUL CONCETTO (CONTROVERSO) DI SPECIE

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di Giulio Sapori

"Ci sbaglieremmo grossolanamente se ci immaginassimo che in natura esistano specie e generi, perché ci sono specie e generi nel nostro modo di pensare.
[...] Non esiste l'albero in generale, il melo in generale, il pero in generale: ci sono solo individui. Non ci sono dunque in natura né specie né generi"
(Éitenne Bonnot de Condillac, Logique ou les premiers développemens de l'art de penser, 1780).

Sentiamo parlare spesso di estinzioni di specie, di specie aliene, autoctone, domestiche, selvatiche, da abbattere, da conservare. Ma cos'è una specie? In questo post ho cercato di mettere in luce la problematicità di tale concetto.

Può sembrare strano ma fino alla prima metà dell' '800 il racconto biblico narrato nel Genesi costituiva il punto di partenza obbligatorio per qualsiasi riflessione sulla specie. Ne era lo sfondo. Nel racconto viene rappresentato Dio intento alla creazione del mondo. Il mondo vivente compare dal terzo giorno: Dio crea erbe, alberi da frutto, pesci, uccelli, animali terrestri, tutti “secondo la loro specie”. Dopo aver abbondantemente popolato il mondo, viene creato Adamo, il primo uomo, a cui Dio darà un compito speciale, quello di nominare tutte specie.

Come il racconto biblico ha rappresentato, per secoli, lo sfondo della classificazione dei viventi, gli scritti naturalistici di Aristotele (384-22 a.c.) hanno rappresentato, per secoli, il giusto metodo classificatorio.
Il termine che Aristotele utilizzava per indicare individui che condividevano somiglianze era èidos, cioè 'aspetto', 'forma', parola che sarà tradotta dagli studiosi latini con "specie".
Quello aristotelico era un concetto molto plastico: a seconda delle stagioni, infatti, si potevano verificare cambiamenti di èidos (es. da upupa in sparviero) e anche accoppiamenti tra individui di èidos differenti.

Dobbiamo attendere il 1583, e la pubblicazione del De plantis, per vedere introdotto ufficialmente nella terminologia scientifica il concetto di specie. In questo volume erano descritte milletrecento piante, raggruppate, quando somiglianti nella totalità delle loro parti, nelle stesse 'specie'. L'autore era il medico e botanico Andrea Cesalpino (1519-1603).

E' però con Carl Linneaus (1743- 1828), e con il suo Systema naturae (1735), che questo concetto si impone come unità di base della classificazione dei viventi, oltre che dei minerali. Linneo, da buon aristotelico, aveva un concetto morfologico (cioè legato alla loro forma) di specie. Le specie, poi, non mutavano: erano le stesse dalla Creazione. Veri fossili viventi. Suo compito, novello Adamo, era quello di nominarle.

Diversa da quella di Linneo - meglio: in contrasto con essa - fu la posizione di Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon (1707–88) il quale, pur concependo le specie come qualcosa di oggettivo, le conferì un po' di movimento, 'sessualizzandole'.
Nella sua Histoire naturelle (1753) ne darà una definizione 'riproduttiva' che avrà molto successo: “la specie non è dunque altro che una successione costante di individui simili e che si riproducono”.
Per Buffon, gli uomini, come i cani, pur differenziandosi in aspetto – per lui: in razze - andavano raggruppati nella medesima specie.
Diversamente da quella morfologica, applicabile anche al mondo minerale, questa nuova definizione poteva essere applicata solo al mondo animale e vegetale.

Jean-Baptiste Lamarck
(1744-1829), pupillo di Buffon, ne portò avanti le intuizioni, che aprirono la porta all'evoluzionismo.
Inizialmente condivise anche l'idea di una loro realtà oggettiva. In seguito si convertì al nominalismo di Condillac, secondo cui in Natura esistono solo individui, non specie. Ai sui studenti, nel 1803, durante il discorso inaugurale del suo corso di Zoologia, diceva: “Potrete sprofondarvi e internarvi nello studio delle classi, degli ordini, dei generi, e perfino delle specie più interessanti, perché tale studio vi sarà utile: ma non dimenticate mai che tutte queste divisioni, di cui non si potrebbe fare a meno, sono fittizie e che la natura non ne riconosce nessuna”. Peccato se ne dimenticò lui stesso, tornando, in seguito, all'idea buffoniana dell'esistenza reale delle specie.

Fu Charles Darwin (1809-82) a mettere ontologicamente in crisi questo concetto, facendo scivolare nel "fiume della vita" tutte le essenze. E infatti, paradossalmente, L'Origine delle specie ci parla di tutto tranne che di questa origine. Come scrive nel suo libro, la specie è null'altro che “un termine applicato arbitrariamente, per ragioni di convenienza”. Di più: in una lettera indirizzata a Charles Lyell (28 settembre 1860) scriveva che “nessuno si convertirà mai [alla teoria dell'evoluzione] se non chi abbia cominciato per conto suo a dubitare delle specie”.
Quella di specie è una categoria che cerca di stabilizzare le forme metamorfiche del divenire, e proprio per questo non ha una dimensione reale.
L'evoluzione e la selezione naturale parlano il linguaggio del mutamento. Le categorie, invece, immobilizzano. Nella loro forma sono legate più ad un universo stabile, non evolutivo: fissazioni, essenze, consone al vecchio pensiero naturale, alla sua volontà sistematica e gerarchizzante.
L'operazione di Darwin, dunque, mandò in fumo la possibilità di un catalogo delle specie, non essendoci più delle 'proprietà' invarianti in grado di distinguere, in senso forte, una specie da un'altra.

Nonostante questo schiaffo, la categoria di specie verrà molto diffusa nel dibattito post-darwiniano, riacquisendo quella solidità che aveva perduto.
Attualmente, in ambito biologico, si contano almeno venti diverse definizioni di specie (The mind of the species problem - Jody Hey). La più diffusa, tanto diffusa da oscurare tutte le altre, è quella data da Ernst Mayr (1904-2005), basata sul concetto di popolazione e riproduzione: “le specie sono gruppi di popolazioni naturali all'interno dei quali gli individui sono realmente (o potenzialmente) in grado di incrociarsi tra loro; ogni specie, da un punto di vista riproduttivo, è isolata dalle altre”.
Sembra, veramente, un ritorno al conte de Buffon.

E' una definizione che dà, sì, un ordine logico al mondo naturale, ma si scontra anche con molti fatti: organismi che si riproducono asessualmente; forme di sterilità intraspecifica; ibridazioni (alcune forme vegetali eterospecifiche riescono a generare ibridi illimitatamente fertili); fecondazioni in cattività; organismi che, pur potendo accoppiarsi, non lo fanno.
Le 'stranezze' non prese in considerazione, insomma, sono molte, come anche quelle di alcune orchidee che, cambiando il partner, mutano di specie (per poter crescere in habitat diversi da quello di appartenenza).

Il problema del pensiero biologico sembra essere: come far convivere la speciazione, punto forte dell'evoluzionismo, con la negazione della specie? Come, cioè, imporre delle identità stabili, delle classificazioni rigide, proprie del modo scientifico di conoscere, ad una realtà presa - e persa - nell'irreversibilità entropica del tempo?

Scrive il neuroscienziato Gianvito Martino:
Definire l'identità a livello biologico è un'operazione complessa, che risulta incompleta non a causa delle nostre limitate capacità classificatorie […], ma perché il concetto stesso di identità potrebbe avere poco senso in natura.
In effetti, oggi possiamo dire che è proprio la mancanza di identità a rendere possibile la vita, e che è il concetto di plasticità – contrapposto a quello di identità – ciò che caratterizza la natura.” (Identità e mutamento, p. 180).

Mi viene da chiedere: ma perché ci interessa tanto classificare, categorizzare, sistematizzare, in specie? Perché ci impegniamo tanto nel voler ripartire secondo proprietà? Che ci facciamo con tutto ciò? Come vengono utilizzate queste categorizzazioni? Anche nell'uso più 'nobile', quello della protezione e della salvaguardia, vi è un lato in ombra: la motivazione. Cosa conferirebbe ad una specie questo statuto di protezione? Direi, essenzialmente, tre caratteristiche: 1) rarità (es. orso); 2) autoctonicità (es. scoiattolo rosso); 3) vicinanza biologica all'uomo (es. primati). In sostanza il loro valore è legato sempre a noi, alle nostre categorie, mai alle loro stesse vite. Un valore che, infatti, può essere revocato in ogni momento.

Storicamente, l'aver ammorbidito il confine di specie ha dato maggiore fondamento alla manipolazione massiva e strumentale dei viventi, più che al loro rispetto. Perché questo? Può essere che la ripartizione in specie non serva ad altro che a ridefinire il 'proprio' dell'Umano, la separazione gerarchica tra noi e le altre specie, per continuare a utilizzarle secondo la nostra utilità (es: sperimentazione, espianto organi)?

Con questo non sto dicendo che siamo tutti uguali, che non ci siano differenze. Al contrario: si sta dicendo che la realtà è il differire stesso. E che il differire è l'esplosione delle differenze. In pratica significa che la vita è immodellizzabile, non essendoci cellula che sia perfettamente uguale ad un'altra.
Forse dovremmo cercare di essere un po' più all'altezza di questa verità. All'altezza della singolarità. Dell'ineffabilità di questo mondo. Possiamo tentare o siamo condannati ai recinti, alle categorizzazioni, ai "vincoli di specie", al "carcere dell'umanità"?

In altri due post cercheremo di vedere più da vicino questa questione attraverso due libri usciti di recente: Uomini e animali: questioni di etica di Simone Pollo (Carocci, 2016) e L'invenzione della specie. Sovvertire la norma, divenire mostri di Massimo Filippi (Ombre corte, 2016). 

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