LA SPECIE È UN'INVENZIONE. SUL LIBRO DI MASSIMO FILIPPI

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di Giulio Sapori

La rivoluzione non è per i deboli di cuore. È per i mostri. Ci tocca perdere quello che siamo per guadagnare quello che possiamo diventare. (M. Hardt e T. Negri)

Come anticipato nell’ultimo post, in questo cercheremo di confrontarci con il libro di Massimo Filippi, L'invenzione della specie. Sovvertire la norma, divenire mostri.

Molte sono le differenze rispetto al libro di Simone Pollo. Schematizzandole possiamo dire che dal senso comune si passi alla ricerca del comune, dal sentimento alla sensualità, dalla filosofia come riflessività alla filosofia come “lotta di classe nella teoria”, dall’etica alla (zoo)politica, dalla naturalità della specie alla sua invenzione.
Anche nello stile si differenziano: da una prosa chiara e intelligibile (Pollo) ad una tortuosa, teriomorfica, perturbante (Filippi).

Il terreno teorico su cui Filippi radica la sua riflessione è il pensiero decostruzionista e della ‘differenza’. Cioè quell’insieme di teorie che hanno messo in luce la falsa neutralità delle costruzioni simboliche e linguistiche che sono alla base dell’organizzazione della realtà.
In questa prospettiva, il linguaggio non è un semplice veicolo di informazioni ma è un’entità performativa, demiurgica: dà forma alla realtà sociale.

 
Detto in altro modo: le classificazioni e le categorie con cui organizziamo, ordiniamo, il mondo non sono mai ingenue e naturali, descrizioni oggettive di ciò che c’è là fuori, ma sono prodotti storici prescrittivi e performativi - tanto più quanto sono ammantate di naturalità.
Ci dicono non solo – o non tanto – cosa esiste, ma determinano cosa è importante e cosa no, chi va rispettato e chi no. In sintesi, ci suggeriscono come dobbiamo comportarci, come dobbiamo vivere.


Il pensiero decostruzionista ha portato alla luce questo non-detto, smontando categorie fondative come quelle di Umano, Animale e Natura.

Ci ha mostrato che quando diciamo Umano ci riferiamo, non ad un uomo in generale, ma ad un soggetto con determinate caratteristiche: l’essere “maschio, bianco, eterosessuale, adulto, normale, sano, proprietario e carnivoro” (p. 12). 
  
Quella di Animale è una categoria che coevolve con quella di Umano: più ci si allontanerà da uno, più ci si avvicinerà all'altro. Una macrocategoria che contiene di tutto: singolare collettivo, vuoto, che serve essenzialmente a costruire, in contrasto, la categoria di Umano.
La categoria di Animale, in pratica, è la base sacrificale sulla quale opera la “macchina antropologica” (Agamben), il dispositivo, la griglia, che determina ciò che è 'propriamente' Umano da ciò che non lo è.

  
Anche la Natura è stata decostruita. Per citare Derrida: “non c’è natura, ma solo effetti di natura: denaturazione o naturalizzazione” (p. 12). Ciò significa che quando affermiamo che una cosa “è naturale” o “contro-natura” stiamo sostenendo un suo dover-essere in un certo modo, e quindi un suo essere 'normale' o 'anormale'.

In breve, i discorsi sulla realtà - le ontologie - non sono mai imparziali ma sempre ideologici, carichi cioè di significazioni normative e normalizzanti.

Lungo questa linea decostruttiva si inserisce il discorso di Filippi sulla specie. Che significa, infatti, che la specie è un'invenzione? Molto semplice: come le altre, la specie è una categoria umana, un “termine utile” (scriveva Darwin), per dare una certa organizzazione, normalizzazione, al reale.
 
Nelle parole di Filippi: “la categoria di specie è il centro vuoto che sostiene il funzionamento della macchina specista, il cui prodotto principale è la speciazione, l'incessante opera tassonomica” (p. 18). Un costrutto performativo che traccia confini, definendo 'il proprio' di qualcosa, la 'specialità' di qualcosa, in opposizione a qualcos'altro.


Questa macchina opera attraverso tre meccanismi:
1) definizione del ‘proprio’ dell’Umano;
2) misurazione della distanza tra l'Umano-standard e le altre specie;
3) distribuzione gerarchica delle specie, a seconda della vicinaza-lontananza dall’Umano.
Il primo meccanismo narra la favola dell'Umano, gli altri due la rinforzano e normalizzano.
Una macchina che ha il potere di determinare “chi può accedere alla sfera della sacralità della vita (umana) e chi è destinato alla messa a morte non criminale” (p. 20)

Quella di specie, dunque, non è una categoria biologica neutra, descrittiva, ma ha sempre anche connotati politici, normalizzanti.
Per esempio, la concezione più comune di specie, quella riproduttiva, interessa società basate sul valore della ri-produzione - valore nato nelle società di allevatori – e, quindi, anche su quello dell'eterosessualità.

Il ragionamento non sostiene, certo, che non ci siano differenze fra gruppi e fra individui, ma che tali differenze sono rese eloquenti da determinati dispositivi - discorsivi e istituzionali - legati ad una certa organizzazione sociale.

Ed è anche per questo che pensare diversamente è difficile. Molto difficile. Perché i discorsi e le istituzioni si intrecciano l'un l'altro a favore della stabilizzazione sociale. Della sua normalizzazione. In pratica, ci mancano, letteralmente, le parole. Tanto sono intrise di specismo, di sessismo, di gerarchie. Tanto sono legate a questa religione fallogocentrica, al suo voler incasellare, ripartire, segregare.

Uno dei compiti più difficili, ma anche più necessari, sarà trovare nuove parole per dare un nuovo significato alla realtà, un nuovo senso al mondo. Un senso più libero e, quindi, meno identitario.
Per intraprendere questo 'programma' Filippi indica due percorsi:

1) la riappropriazione politica dell'abietto
2) la denaturazione politica della norma
Il primo è il tentativo di far entrare soggettività anormali, vite di scarto, nel discorso politico; il secondo, invece, cerca di scardinare i dispositivi, le griglie selettive, che determinano chi può entrare e chi no nella sfera del rispetto, chi può entrare e chi no nella sfera della vita degna.


Come performare, pendere prassi, questi percorsi?
Ovviamente, non servono armi d'acciaio - certo, una tenaglia può sempre essere utile... - ma strumenti concettuali.
Uno strumento preso in considerazione nel libro è quello della parodizzazione della parodia.


Il nostro tempo, infatti, è il tempo della parodia, delle “missioni di pace”, della democrazia senza cittadini, della comicità al potere, della libertà preconfezionata, del cinismo compiaciuto, della carne felice. Il tempo, cioè, della distorsione addomesticata – e, quindi, conservatrice - della realtà. Il Potere è sempre lì, solo ha messo una maschera distorcente (chi non ricorda il miliardario "presidente operaio"?)


Parodizzare la parodia significa, allora, prendersi gioco di queste identità perverse ma addomesticate. Significa erodere il centro sacrale, separato, del Potere. Significa profanare: mettere in crisi la distinzione tra ciò che è proprio e improprio, amico e nemico, migrante e autoctono. Significa esporsi al gioco e all'incontro tra impropri, tra meticci, tra stranieri.

L'antispecismo non cercherà tracce di umanità nelle altre specie ma revocherà “l'idea stessa di un 'proprio' dell'uomo”, a favore del fluire sfuggente di zoé, del vivente sensuale, dell'indistinto. Profana, in questo modo, la sacralità dell'Umano, il suo isolazionismo simbolico.
 
Un antispecismo che passa dall'enunciazione di differenze al movimento del differire. Del tra. Dello scarto. È un movimento. Un movimento di liberazione degli animali, degli animalizzati e dell'animalità. Un movimento che tenta di rendere inoperosa la macchina specista, la macchina delle differenze gerarchizzanti, delle vite degne e indegne di vivere. A favore del comune, di quell’essere-singolare-plurale che noi siamo e in cui ci troviamo.

Nei capitoli 2 e 4, l’autore cerca di mettere per iscritto, di dare forma, a questo fluire indistinto, in cui i confini tra umano e animale si perdono. E, nel gioco dei significanti, e delle identificazioni, ci perdiamo anche noi, diventando, in certo modo, quei mostri che siamo.

Forse, anzi sicuramente, un antispecismo difficile, teoricamente non addomesticabile. Questa sua “croce e delizia”. La destabilizzazione dell’identità, infatti, può portare a frammentazione e incomprensione e, quindi, ad un rallentamento, o a una paralisi, della prassi collettiva.
 
Forse chiede troppo. Ma le richieste sono giuste.
La posta in gioco sarà, allora, come riuscire ad intrecciare queste richieste con una prassi diffusa.

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