L'ECOLOGIA SOCIALE DI BOOKCHIN. INTERVISTA CON ERMANNO CASTANÒ

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Proponiamo un’intervista con Ermanno Castanò, studioso del pensatore radicale Murray Bookchin, a cui ha dedicato un libro per Mimesis edizioni.
Ci siamo incontrati alla Libreria Anomalia, libreria impegnata nella diffusione del pensiero radicale e libertario, situata nel quartiere San Lorenzo di Roma.


GIULIO SAPORI
: Hai scritto un libro su Murray Bookchin, uno dei pochi in Italia, Ecologia e potere (Mimesis, 2011). Come prima domanda vorrei chiederti chi è Murray Bookchin, visto che è un autore semisconosciuto, a parte, forse, tra la cultura anarchica - questo febbraio è uscito un dossier sulla rivista A n. 413.

ERMANNO CASTANÒ: Bookchin è una figura di intellettuale davvero fuori dal comune. Non è mai stato un accademico, tutta la sua produzione si è sviluppata all’interno dei movimenti politici radicali: da quelli operai degli anni ‘50 fino all’ecologismo dei primi anni 2000. Per questo il suo nome non viene quasi mai citato fra i grandi nomi della filosofia americana, nonostante le questioni da lui sollevate siano tutt’altro che trascurabili. È stato lui infatti a introdurre la questione ambientale nei movimenti proponendo un’analisi dei rapporti fra potere, economia e vita naturale.

G.S.: Da giovane Bookchin, si riconobbe nel marxismo e nel comunismo. In seguito ne criticò le impostazioni troppo autoritarie, e se ne distaccò. Scrisse un libro Listen Marxist!, in cui riconosce l’importanza della critica di Marx al Capitale ma ne definisce anche i limiti. La critica, insomma, va aggiornata alla società contemporanea.

E.C.: Ciò che lascia spiazzati di Bookchin è stata la sua abilità nell’evitare le categorie preimpostate. Da giovane è stato un trotzkista, poi ha aderito all’anarchismo e al pensiero libertario in genere. Ma elementi “marxisti” nei suoi testi sono facilmente riconoscibili anche dopo tale “svolta”, in particolare la critica al capitale e al suo modo di produzione. Dell’anarchismo Bookchin apprezzava, mi sembra, innanzitutto la critica ai dispositivi di potere i quali, insieme a quelli economici, producono un dominio sul vivente estremamente complesso e articolato. Oltre a questo ne apprezzava la capacità di tenere assieme mezzi e fini politici, quando invece il marxismo ammetteva che si potesse raggiungere una società liberata con mezzi autoritari. Anche se poi si è visto l’esito storico di tale credenza..

G.S.: Un concetto-guida del pensiero di Bookchin è quello di Dominio, che riprende dalla Scuola di Francoforte, per cui la storia dell’Occidente è storia di Dominio, ma con delle modifiche…

E.C.: L’interesse per la scuola di Francoforte nasce dall’esigenza di analizzare la struttura del dominio al di là della recente comparsa del capitalismo. La nostra civiltà è sin dall’origine fondata sull’idea di “dominio della natura” che è stata, nelle varie epoche, funzionale sia al dominio della natura interna (gli istinti, i corpi), sia al dominio della natura esterna (gli animali, il territorio, gli altri esseri umani). Un dominio di classe che insieme alla crescita della civilizzazione ha visto una crescita dello sfruttamento sociale e ambientale che oggi mette a repentaglio la vita sull’intero pianeta. Ma ci potrebbe essere una via d’uscita...

G.S.: Ne accenneremo poi. Ora volevo soffermarmi su una parte molto interessante del tuo libro: quella relativa ad un’archeologia del sapere ecologico. Metti in mostra un’ambiguità, presente già alla fondazione di questo sapere, il suo configurarsi come strumento di biopotere ma anche di apertura ad un nuovo fronte politico libertario.
L’ecologia, insomma, può essere un sapere che libera, un’ecologia “della libertà” ma anche un sapere che sottomette.


E.C.: Sì quello è un aspetto appena accennato da Bookchin che però mi sono divertito a inseguire in una lettura foucaultiana-agambeniana (chissà se Bookchin l’avrebbe condivisa!). Lui si limitava a evidenziare come là dove più cresce il pericolo di una civiltà che produce la crisi ecologica, cresce pure una scienza, l’ecologia, che potrebbe indicare la via d’uscita in quanto studia l’equilibrio e l’armonia fra le varie componenti naturali e culturali. Bookchin mise però in guardia sul fatto che la stessa ecologia potesse venire usata come una nuova tecnologia di governo del vivente. Ecco ho voluto, rileggendo i testi fondamentali di questa scienza, verificare se davvero l’ecologia sia in grado di aprire una strada che conduca fuori dall’ambito biopolitico e oikonomico nel quale è nata. L’esito solleva in effetti molto dubbi in merito.

G.S.:  Bookchin definisce la sua ecologia “sociale”, sottolineando il fatto che non si può parlare di ecologia senza parlare anche di società. Questo è anche il motivo di critica all’ecologia profonda e al biocentrismo. Rivoluzione sociale ed ecologica sono, insomma, due facce della stessa medaglia…

E.C.: Come dicevo, nella sua ottica il dominio sulla natura è lo sfondo ontologico del dominio di classe e statale che nella nostra società ha dato luogo a dispositivi onnipervasivi. Dunque voler fare della lotta contro tale dominio una “scelta morale”, come fanno l’ecologia profonda e il biocentrismo, piuttosto che un elemento della lotta politica, significa essere in fondo solidali con esso. All’estremo opposto, il fatto che l’invenzione di tale dominio sul vivente sia rintracciabile nelle origini della civiltà urbana e della domesticazione (nel neolitico) non autorizza nemmeno, secondo Bookchin, a sostenere che la specie umana sia in se stessa una “malattia” o che bisogna tornare indietro al paleolitico!
Piuttosto va riconosciuto come, insieme al dominio, siano nate anche le lotte per la libertà e come la storia sia il risultato di questo scontro e di queste resistenze. Si tratta, dunque, di riprendere i loro frammenti perché in essi ci sono i rudimenti di una forma di vita altra.

G.S.: Noto anche una critica al primitivismo, a mio parere un po’ ingenerosa.
Ma ci porta a un punto importante della sua teorizzazione, riguardante la sua concezione della scienza e della tecnica. Una concezione diversa da quella di Zerzan e del primitivismo. La tecnica è, per Bookchin, la nostra “seconda  natura”: non va rigettata ma resa meno alienante e meno funzionale al dominio (come anche la scienza).


E.C.: Per me Bookchin e Zerzan sono agli antipodi e sono inconciliabili. E non ti nascondo la mia antipatia per una visione rozza come quella di Zerzan e del suo ritorno a una società di cacciatori-raccoglitori paleolitici.
Per Bookchin ogni tecnologia è figlia dell’orizzonte ideale della società in cui si sviluppa. Una società classista come quella in cui viviamo, la cui storia culturale è retta da molti secoli dall’idea che la natura debba essere dominata e sfruttata, non può che dar luogo a un apparato tecnologico come quello che oggi sta distruggendo il mondo. Letteralmente non riesce a vedere oltre. È possibile però comprendere, per chi ne ha voglia, come all’interno di culture diverse esistano tecnologie diverse.
I greci nella techne includevano l’arte e questa aveva un significato “onto-poietico”, era cioè l’arte di porre in essere qualcosa sul cui senso ci si interrogava. Era dunque molto diversa dalla moderna tecnocrazia alienante. Ancora fino al rinascimento la tecnologia era in gran parte orientata all’armonia con la natura. Guardando al di fuori del nostro mondo, le società precoloniali in America e in Africa avevano una tecnologia che non aveva affatto impatti distruttivi sulla natura. Dovremmo imparare da tali culture che non sono affatto “primitive” o “naturali” (anzi tali definizioni sono fortemente eurocentriche). Ma il discorso sarebbe lungo.
Per Bookchin la tecnica è “connaturata” all’uomo come ad altre specie. Ogni azione fatta coscientemente con l’uso di strumenti è una tecnica. In questo senso la cultura è una “seconda natura” per l’uomo perché eleva a potenza la creatività naturale presente in vari animali e gli permette di determinare socialmente le condizioni della propria esistenza.
Il meccanismo della metafisica, invece, funziona separando una natura presupposta muta e una cultura presupposta superiore. Non è rovesciando i loro ruoli come fa il primitisvismo che si arresta questa macchina.
Però, secondo me, Bookchin non fa un discorso di “meno alienante” o “meno funzionale” come dicevi. Non cerca compromessi col produttivismo e col consumismo capitalisti che credono che o cresce il pil o si muore. Piuttosto auspica una tecnica liberata in una società liberata; qualcosa di simile all’arte o al gioco che può essere praticato sin da ora, seppur in esperienze sporadiche e locali che vanno alimentate (l’uso del solare, l’eolico, la permacultura, l’automazione, etc.).

G.S.: Un altro punto molto interessante dell’analisi di Bookchin è la critica della naturalizzazione della gerarchia. Noi siamo portati a proiettare indebitamente la nostra concezione gerarchica di società sulla Natura (es. ape regina-api operaie).

E.C.: Già le femministe avevano criticato il concetto di “natura” come fonte di una presunta normatività dei ruoli di genere, mostrando come essi non erano affatto “naturali” (cioè indiscutibili) ma culturali. Bookchin prosegue tale critica mostrando come sia la società a proiettare sulla natura le proprie gerarchie e non viceversa. Come nel caso che dicevi delle “api regine”. Al di là di questa retorica è facile mostrare come (alcuni studi etologici l’hanno fatto) l’ape “regina” non regni affatto, o il “capo branco” non sia per niente il prototipo di un capo di stato (non ha forze armate né organi di sicurezza). Piuttosto tali ruoli in natura si fondano sempre sulla condivisione o su certe funzioni, e sono estremamente variabili piuttosto che gerarchie fisse e codificate.

G.S.: Abbiamo capito che per Bookchin, l’idea di Natura è sempre anche politica ed etica. I discorsi sulla Natura sono sempre partigiani. Non c’è un’ontologia neutra, come vorrebbe lo scientismo.

E.C.: No, non c’è un’ontologia neutra. Inoltrandosi in un’archeologia dell’ontologia come ha fatto Bookchin ci si imbatte nel fatto che i suoi concetti hanno sempre già valenza etica e politica. Come quando Aristotele descrive l’uomo come l’animale che ha il linguaggio facendo un’affermazione che si pretende oggettiva ma che allo stesso tempo fonda lo spazio della polis.
Poi, bisogna intendersi su cosa sia la “natura”. Bookchin non la intende come l’oggetto della scienza o come la fonte di norme sociali di qualche tipo. Si richiama, piuttosto, all’idea greca di natura come physis, come sorgente inafferrabile di ogni essere. Pensare la natura in questo modo potrebbe, forse, dischiudere la possibilità di un pensiero che pensa l’essere senza volerlo afferrare e dominare. E in questo senso è già pensiero etico e politico.

G.S.: Che ruolo ha la categoria di Animale nel suo pensiero? E’ possibile accostare il suo pensiero a quello antispecista?

E.C.: Dunque: secondo alcuni critici Bookchin non è antispecista o è addirittura specista senza saperlo (come ha scritto di recente Steven Best in Rivoluzione totale). È un problema aperto. Quel che è certo è che lui non è mai intervenuto in questo dibattito, se non da una prospettiva ecologica. Però, a mio avviso, nella sua riflessione ci sono elementi utili a una critica dell’ideologia della specie. Infatti, Bookchin si è spesso soffermato su come l’etologia abbia mostrato che molti animali hanno una “cultura”, un linguaggio e un’organizzazione sociale sostenendo inoltre che, per superare l’orizzonte del dominio sulla natura, la stessa nozione di “animale” debba essere ripensata. Le barriere fra umano e animale devono cadere se si vuole superare la contrapposizione fra natura e cultura che è la base metafisica della tecnica moderna.

G.S.: Prima avevi accennato la possibilità di una “via d’uscita” dalla società strutturata sul dominio.
In effetti, Bookchin pensa ad una possibile organizzazione diversa del vivere sociale.
La nuova società dovrà essere antigerarchica e autogestita, formata dal basso. Municipi libertari, cooperativi ed ecologici che, alleandosi tra loro (bioregioni) si contrapporranno allo Stato centralizzato, il Leviatano.
In conclusione di questa intervista, vorrei chiederti quindi di dirci qualcosa sul municipalismo e, soprattutto, se vi siano esempi concreti di questa forma di governo.

E.C.: La sua visione utopica di una società ecologica è quella di una comunità armonica in cui il dominio (il vincolo fra vita e potere sovrano) è stato destituito. Bookchin riprende la tradizione del consigliarismo e delle comuni conciliandola con l’esigenza di una nuova armonia con la natura. Il “municipalismo libertario” si chiama così perché prevede che la società realmente armonica sia quella che si autogestisce in modo assembleare per mezzo di una democrazia diretta.
Rispetto a una semplice democrazia partecipativa, questo modello prevede che l’economia e le infrastrutture siano gestite a livello municipale per poter smantellare la tecnologia su larga scala degli stati e del capitale. Una comunità federata e organizzata in questo modo potrebbe finalmente progettare una tecnologia del tutto orientata all’armonia con la creatività naturale.
In ultima analisi, però, non è la semplice organizzazione a cambiare il rapporto fra società e natura, ma è la sensibilità profonda nei confronti della vita che deve cambiare. Per questo il tentativo di trasformazione dell’ecologia sociale non è solo etico e politico ma anche ontologico.
Per quanto riguarda gli esempi si potrebbe dire che qualcosa del genere già esista in varie esperienze di autogestione sparse per il mondo, in particolare nel Rojava siriano dove i rivoluzionari hanno dato luogo a una confederalismo democratico strettamente imparentato con le idee di Bookchin.

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