Proponiamo la trascrizione dell'Introduzione del libro ALLARME PESCE (Ponte alle Grazie, 2005), scritto dal giornalista britannico Charles Clover.
Il libro - ormai fuori catalogo in Italia - è un'inchiesta su quella che viene definita l’“attività più distruttiva della Terra”: la pesca.
Pur non condividendo il linguaggio un po' burocratico - i pesci sono spesso ridotti a semplici 'risorse' - questo è uno dei pochi libri che punta il dito contro una pratica su cui vi è un'ignoranza enorme a livello sociale.
L'immagine del pescatore più diffusa socialmente, soprattutto tra i più piccoli, è quella del bonario Capitan Findus. L'immagine realistica è invece quella di un'impersonale flotta da guerra che ha l'unico obiettivo di catturare più pesce possibile, svuotando i mari e gli oceani di vita.
Da questo libro è stato tratto anche un documentario, The end of the line (in Italia uscito con Feltrinelli).
Immaginate cosa direbbe la gente se una banda di cacciatori tendesse una rete lunga un chilometro e mezzo tra due enormi fuoristrada e la trascinasse a tutta velocità attraverso le pianure dell’Africa. Questo bizzarro marchingegno, simile a quelli che si vedono nel film Mad Max, raccoglierebbe tutto ciò che trova sulla sua strada: predatori come leoni e ghepardi; erbivori goffi e pesanti in via d’estinzione, come rinoceronti ed elefanti; mandrie di impala e di gnu, intere famiglie di facoceri. Le femmine gravide verrebbero trascinate e catturate lungo il tragitto; solo i cuccioli più piccoli riuscirebbero a sgusciare attraverso le maglie della rete.
Provate ad immaginare com’è costruita la rete: all’imboccatura c’è un enorme rullo di metallo, mentre una catena fa a pezzi e spiana gli ostacoli, stanando gli animali e spingendoli verso le maglie che si avvicinano. Un’enorme barra di ferro trascinata attraverso la savana strappa tutto ciò che affiora dal terreno, sradica ogni albero, cespuglio, pianta fiorita, costringendo stormi di uccelli ad alzarsi in volo. La rete mostruosa lascia dietro di sé un paesaggio devastato che assomiglia a un campi rivoltato dall’erpice.
Alla fine della corsa questi cacciatori-raccoglitori dell’era industriale si fermano ad esaminare l’intrico caotico di creature morte o agonizzanti alle loro spalle. Per almeno un terzo degli animali che hanno catturato non c’è mercato perché la loro carne non è molto buona da mangiare o perché semplicemente sono troppo piccoli o troppo spiaccicati. la pila di carcasse viene scaricata nella pianura per essere consumata dalla putrefazione.
Questo modo efficiente ma indiscriminato di uccidere animali è conosciuto con il nome di pesca a strascico. È un tipo di pesca praticata quotidianamente in ogni parte del mondo, dal mare di Barents nell’Artico alle rive dell’Antartide, e dalle acque tropicali dell’oceano Indiano e del Pacifico centrale a quelle temperate al largo di Cape Cod, nel Massachussetts.
Sono almeno diecimila anni che si pesca con le reti, dai tempi in cui i cacciatori davano la caccia ad altri esseri umani per procurarsi il cibo e uccidevano i mammut facendoli precipitare dai dirupi. Ma, dal momento che ciò che fanno i pescatori è in parte offuscato dalla distanza e dal velo di acqua che copre la Terra e i pesci sono creature a sangue freddo anziché bestiole affettuose, la maggior parte della gente continua a guardare ciò che succede in mare con occhio diverso rispetto a ciò che succede sulla terraferma.
Dei pescatori abbiamo un’idea
antiquata: li immaginiamo avventurieri barbuti delle fattezze di Capitan
Findus, non ce li figuriamo di certo dirigere un mattatoio.
Mangiare pesce è di moda. Il pesce viene consumato con molte meno riserve mentali che non la carne. Persino molti vegetariani non trovano paradossale cibarsi di pesce. Per i consumatori occidentali è diventato una sorta di talismano dietetico.
I nutrizionisti ci dicono che il pesce fa bene – è la migliore fonte di proteine e vitamine prive di grassi – e che gli acidi grassi omega-3 contenuti nell’olio di pesce favoriscono il funzionamento ottimale del cervello, riducono il pericolo di attacchi cardiaci e di ictus e ritardano l’insorgenza di artrite e osteoporosi. Alcuni studi indicano persino che il consumo di pesce rallenta il processo d’invecchiamento e può aiutarci a perdere peso in quanto la dieta a base di pesce blocca l’ormone della fame, facendoci sentire sazi con quantità di cibo più ridotte e più nutrienti. Le modelle filiformi che siamo portati ad ammirare come incarnazioni ideali del corpo femminile non devono ricorrere al fumo per restare pelle e ossa, ma possono sentirsi sazie consumando porzioni da uccellino. Non devono far altro che mangiare pesce.
Purtroppo la nostra storia d’amore con il pesce non è più sostenibile. Ne abbiamo la prova davanti agli occhi. Abbiamo visto quello che la tecnologia industriale ha fatto alle grandi balene, la cui caccia è soggetta a un divieto mondiale, anche se non assoluto. Credo che siamo giunti a un punto di svolta nella consapevolezza generale: stiamo cominciando a capire cosa le tecniche industriali di pesca, le forze incontrollate del mercato e la scarsa coscienza del fenomeno stanno facendo agli abitanti del mare.
Nel campo dell’agricoltura e dell’allevamento, un tale punto di svolta si è raggiunto quando gli spray, i fertilizzanti, gli additivi alimentari e le tecniche di allevamento intensivo utilizzati nella coltura delle piante e nell’allevamento del bestiame hanno condotto al crollo della reputazione di agricoltori e allevatori quali custodi della campagna e guardiani della qualità del cibo che mangiamo. Agricoltori e allevatori stanno cominciando solo ora a rifarsi un’immagine, ma a loro si guarda ancora con sospetto.
Un tempo i pesci erano visti come risorse rinnovabili, creature le cui riserve si sarebbero ricostituite all’infinito, a nostro beneficio. Ma in ogni parte del mondo ci troviamo di fronte alla prova che la pesca ha portato all’esaurimento di numerose specie ittiche, tra cui il merluzzo settentrionale, lo sgombro del mare del Nord, il merluzzo antartico e sopratutto il tonno rosso dell’Atlantico occidentale, come è avvenuto in precedenza per la grandi balene, e che le riserve di tali specie non mostrano segni di ripresa.
Le fonti ufficiali su entrambe le sponde dell’Atlantico assicurano che i mari sono “gestiti” in modo scientifico, ma è sempre più difficile credervi. L’applicazione della normativa cui dovrebbero sottostare l’esercizio della pesca negli oceani ha evidenziato lacune quasi ovunque. Perfino nelle democrazie che funzionano meglio, gli esperti ammettono che l’overfishing, il sovrasfruttamento ittico, sfugge a ogni controllo.
Questo è il momento in cui la percezione degli oceani deve andare incontro a un cambiamento. A richiederlo è la consapevolezza che nell’arco della vita di un uomo abbiamo condotti gli oceani a una crisi peggiore di quelle causate fin qui dall’inquinamento, paragonabile alla distruzione di mammut, bisonti e balene, al saccheggio delle foreste pluviali e alla caccia dei grandi animali selvaggi.
Responsabile di tale crisi è l’overfishing. In quanto metodo di distruzione di massa, la pesca praticata con la moderna tecnologia è l’attività più distruttiva della Terra. Non è esagerato sostenere che la pesca eccessiva sta cambiando il mondo. Proprio quando gli abissi marini sono diventati l’ultima frontiera e i suoi abitanti un affascinante soggetto cinematografico, le creature che nuotano vicino alla superficie, con gli squali e i cavallucci marini, stanno avviandosi all’estinzione.
Il sovra sfruttamento ittico minaccia di sottrarre risorse alimentari a paesi in via di sviluppo per portare pietanze prelibate sulle tavole dei paesi ricchi. Per far sì che le compagnie di pesca oggi possano mantenere la loro redditività, non si esita a intaccare le scorte di cibo genuino delle generazioni di domani.
Dal momento che le riserve ittiche tradizionali si estinguono e se ne trovano altre in sostituzione, l’overfishing sta alterando la nostra dieta, così come l’evoluzione: in risposta alla pressione esercitata dalla pesca, il merluzzo del mare del Nord ha cominciato a deporre le uova in età più giovane. L’overfishing è stato, e senz’altro sarà ancora, causa di guerre e di dispute internazionali. Rappresenta una forza importante nel contesto del commercio mondiale e delle relazioni internazionali, ed è agente corrosivo nell’ambito delle politiche statali e locali.
Questo libro vuole dimostrare che, a causa dell’overfishing, ci stiamo avvicinando al punto di non ritorno per le riserve ittiche e per interi ecosistemi negli oceani di tutto il mondo e che è ora di cambiare le cose. (…) Rivela la portata di quello che sta succedendo negli oceani per causa nostra, cioè per soddisfare la nostra voglia di pesce, e mostra il vero prezzo di questa risorsa: quello che non trovate sul menù.
Mangiare pesce è di moda. Il pesce viene consumato con molte meno riserve mentali che non la carne. Persino molti vegetariani non trovano paradossale cibarsi di pesce. Per i consumatori occidentali è diventato una sorta di talismano dietetico.
I nutrizionisti ci dicono che il pesce fa bene – è la migliore fonte di proteine e vitamine prive di grassi – e che gli acidi grassi omega-3 contenuti nell’olio di pesce favoriscono il funzionamento ottimale del cervello, riducono il pericolo di attacchi cardiaci e di ictus e ritardano l’insorgenza di artrite e osteoporosi. Alcuni studi indicano persino che il consumo di pesce rallenta il processo d’invecchiamento e può aiutarci a perdere peso in quanto la dieta a base di pesce blocca l’ormone della fame, facendoci sentire sazi con quantità di cibo più ridotte e più nutrienti. Le modelle filiformi che siamo portati ad ammirare come incarnazioni ideali del corpo femminile non devono ricorrere al fumo per restare pelle e ossa, ma possono sentirsi sazie consumando porzioni da uccellino. Non devono far altro che mangiare pesce.
Purtroppo la nostra storia d’amore con il pesce non è più sostenibile. Ne abbiamo la prova davanti agli occhi. Abbiamo visto quello che la tecnologia industriale ha fatto alle grandi balene, la cui caccia è soggetta a un divieto mondiale, anche se non assoluto. Credo che siamo giunti a un punto di svolta nella consapevolezza generale: stiamo cominciando a capire cosa le tecniche industriali di pesca, le forze incontrollate del mercato e la scarsa coscienza del fenomeno stanno facendo agli abitanti del mare.
Nel campo dell’agricoltura e dell’allevamento, un tale punto di svolta si è raggiunto quando gli spray, i fertilizzanti, gli additivi alimentari e le tecniche di allevamento intensivo utilizzati nella coltura delle piante e nell’allevamento del bestiame hanno condotto al crollo della reputazione di agricoltori e allevatori quali custodi della campagna e guardiani della qualità del cibo che mangiamo. Agricoltori e allevatori stanno cominciando solo ora a rifarsi un’immagine, ma a loro si guarda ancora con sospetto.
Un tempo i pesci erano visti come risorse rinnovabili, creature le cui riserve si sarebbero ricostituite all’infinito, a nostro beneficio. Ma in ogni parte del mondo ci troviamo di fronte alla prova che la pesca ha portato all’esaurimento di numerose specie ittiche, tra cui il merluzzo settentrionale, lo sgombro del mare del Nord, il merluzzo antartico e sopratutto il tonno rosso dell’Atlantico occidentale, come è avvenuto in precedenza per la grandi balene, e che le riserve di tali specie non mostrano segni di ripresa.
Le fonti ufficiali su entrambe le sponde dell’Atlantico assicurano che i mari sono “gestiti” in modo scientifico, ma è sempre più difficile credervi. L’applicazione della normativa cui dovrebbero sottostare l’esercizio della pesca negli oceani ha evidenziato lacune quasi ovunque. Perfino nelle democrazie che funzionano meglio, gli esperti ammettono che l’overfishing, il sovrasfruttamento ittico, sfugge a ogni controllo.
Questo è il momento in cui la percezione degli oceani deve andare incontro a un cambiamento. A richiederlo è la consapevolezza che nell’arco della vita di un uomo abbiamo condotti gli oceani a una crisi peggiore di quelle causate fin qui dall’inquinamento, paragonabile alla distruzione di mammut, bisonti e balene, al saccheggio delle foreste pluviali e alla caccia dei grandi animali selvaggi.
Responsabile di tale crisi è l’overfishing. In quanto metodo di distruzione di massa, la pesca praticata con la moderna tecnologia è l’attività più distruttiva della Terra. Non è esagerato sostenere che la pesca eccessiva sta cambiando il mondo. Proprio quando gli abissi marini sono diventati l’ultima frontiera e i suoi abitanti un affascinante soggetto cinematografico, le creature che nuotano vicino alla superficie, con gli squali e i cavallucci marini, stanno avviandosi all’estinzione.
Il sovra sfruttamento ittico minaccia di sottrarre risorse alimentari a paesi in via di sviluppo per portare pietanze prelibate sulle tavole dei paesi ricchi. Per far sì che le compagnie di pesca oggi possano mantenere la loro redditività, non si esita a intaccare le scorte di cibo genuino delle generazioni di domani.
Dal momento che le riserve ittiche tradizionali si estinguono e se ne trovano altre in sostituzione, l’overfishing sta alterando la nostra dieta, così come l’evoluzione: in risposta alla pressione esercitata dalla pesca, il merluzzo del mare del Nord ha cominciato a deporre le uova in età più giovane. L’overfishing è stato, e senz’altro sarà ancora, causa di guerre e di dispute internazionali. Rappresenta una forza importante nel contesto del commercio mondiale e delle relazioni internazionali, ed è agente corrosivo nell’ambito delle politiche statali e locali.
Questo libro vuole dimostrare che, a causa dell’overfishing, ci stiamo avvicinando al punto di non ritorno per le riserve ittiche e per interi ecosistemi negli oceani di tutto il mondo e che è ora di cambiare le cose. (…) Rivela la portata di quello che sta succedendo negli oceani per causa nostra, cioè per soddisfare la nostra voglia di pesce, e mostra il vero prezzo di questa risorsa: quello che non trovate sul menù.
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