Alan W. Watts (1915-73) è stato uno scrittore e filosofo molto famoso, soprattutto come interprete originale delle culture e delle filosofie orientali in Occidente.
Scrisse oltre venti libri, il più famoso dei quali è La via dello Zen, pubblicato da Feltrinelli per la prima volta nel 1960.
Fu uno dei pensatori più seguiti dai movimenti della controcultura.
Il testo che proponiamo è la traduzione di un suo famoso discorso.
Com’è che sembra che noi non riusciamo ad adattarci all’ambiente senza distruggerlo? Com’è che il nostro successo è un fallimento? Che stiamo costruendo, in altre parole, un’enorme civiltà tecnologica, che sembra permettere il realizzarsi di ogni desiderio semplicemente toccando un pulsante. Eppure come nelle favole, quando i desideri sono finalmente materializzati, sono come l’oro delle fate, non sono per nulla reali.
Le ricchezze che produciamo sono effimere, e come risultato di ciò siamo frustrati, terribilmente frustrati. Riteniamo che l’unica cosa da fare è andare avanti e ottenere sempre di più. E, come risultato di ciò, tutto il nostro mondo inizia ad assomigliare come la cameretta di un bambino viziato, che ha troppi giocattoli di cui si è annoiato, quindi li getta via alla stessa velocità con la quale li ottiene, giocandoci solo per qualche minuto.
Inoltre ci dedichiamo ad una tremenda guerra alle basilari dimensione di spazio e tempo, vogliamo annullare le loro limitazioni. Vogliamo ottenere tutto il più presto possibile. Vogliamo convertire i ritmi e le capacità lavorative in soldi, con i quali ovviamente puoi comprare qualcosa, ma che non possono essere mangiati. Per poi tornare in fretta a casa dal lavoro e finalmente avere tempo per la nostra vita vera e godere di noi stessi.
Ma sapete che per la stragrande maggioranza delle persone, quello che sembra il vero scopo della vita, è di correre a casa per guardare una riproduzione elettronica della vita, che non si può toccare, che non si può odorare e non ha sapore. Potresti pensare che le persone tornano a casa per il vero scopo della vita. In una vera cultura materialistica esse tornerebbero a casa per partecipare ad un colossale banchetto oppure fare l’amore o perdersi nella musica e nella danza. Ma nulla del genere.
Sembra invece che il vero scopo sia la semplice passiva contemplazione di uno schermo: tutti sono isolati, fissi a guardare questa cosa. E non c’è più vera comunione con gli altri, per nulla. E questo isolamento delle persone in un loro mondo privato, è in realtà la creazione di una popolazione senza cervello.
È perfettamente accettata l’esibizione delle ostilità tra le persone nello sport, nelle discussioni, nei raduni pubblici, e si parla sempre di uccisioni e maltrattamenti sulla televisione. Mai che si vedano persone che si amano, per davvero, non per finta. Uno può trarre la conclusione che il presupposto dietro tutto questo sia che l’espressione dell’amore fisico sia molto più pericoloso dell’espressione fisica dell’odio.
E pare che una cultura basata su questi presupposti sia fondamentalmente folle. E che si dedichi, ovviamente involontariamente, non alla sopravvivenza, ma alla reale distruzione della vita.
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